Cinquantacinque giorni dopo il sequestro, avvenuto il 16 marzo dello stesso anno, in Via Caetani, a metà strada tra la sede del PCI, in Via delle Botteghe Oscure, e quella della DC, in Piazza del Gesù, viene rinvenuto, nel bagagliaio di una R4 rossa il cadavere di Aldo Moro.
Il sequestro è ad opera delle Brigate Rosse.
Quelli che preludono al sequestro sono giorni difficili. La crisi petrolifera ha messo in ginocchio l’economia del Paese, le Brigate Rosse hanno raggiunto l’apice del loro potenziale eversivo e di terrore, scandali continui scuotono i palazzi del potere. Più di ogni altra cosa, è evidente che la classe politica dominante non è in alcun modo in grado di intercettare il malcontento, il bisogno di cambiamento, l’evoluzione dei costumi.
Pochi giorni prima, la posizione dello stesso Moro all’interno dello scandalo Lockheed è stata archiviata dalla Corte Costituzionale. Era sospettato di essere l’Antelope Cobbler, e, nonostante l’archiviazione, i sospetti, almeno a livello di opinione pubblica, restano.
Il Presidente democristiano viene prelevato in Via Fani intorno alle 9.00, con un’azione che ricorda quella di un commando. Della scorta che lo accompagna, nessuno sopravvive. E probabilmente non è un caso, visto che proprio i concitati momenti del sequestro resteranno tra i (molti) misteri di questa vicenda.
Moro si stava recando a Montecitorio, dove, di lì a poco, avrebbe dovuto presentarsi, per incassare la fiducia, un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, che succedeva a se stesso.
Di fronte agli eventi, il governo incasserà la fiducia il giorno successivo. Per la prima volta, eccezion fatta per il primo periodo del dopoguerra, e vista la gravità dei fatti, il PCI farà parte della maggioranza parlamentare che sostiene il gioverno, sebbene senza propri rappresentanti all’interno dello stesso.
Nasce immediatamente un’unità di crisi, diretta dal Ministro degli Interni, Francesco Cossiga.
In quei 55 giorni accade di tutto. L’unica certezza è che l’ostaggio verrà ritrovato, ma cadavere, nel bagagliaio della R4 rossa.
Le ipotesi si sprecano. Alcune più fantasiose, altre meno. Tutte fondate sulla dietrologia, che d’altronde viene molto incoraggiata dalla perenne mancanza di chiarezza delle vicende italiane.
Dietro il sequestro e la morte di Moro si agitano mille fantasmi. I servizi segreti, la loggia massonica P2, gli amici democristiani, in primis Andreotti, gli americani.
Non mancò nulla, neppure il momento esoterico, con la seduta spiritica (cui partecipò Romano Prodi) cui seguì lo scandagliamento del lago della Duchessa.
Non si fanno qui ipotesi, ma delle molte (troppe) che sono state elaborate negli anni, restano alcuni dati di fatto incontrovertibili.
Mino Pecorelli, che lanciò pesanti accuse su un intreccio che si fondava sui rapporti tra Andreotti e P2, morì meno di un anno dopo, e certo non di morte naturale.
Il generale Dalla Chiesa, che Pecorelli sostiene più o meno velatamente essere a conoscenza della prigione di Moro, e che verrebbe impedito nel liberarlo dal già citato Andreotti, verrà ucciso anch’egli, in un attentato, nel 1982.
Per l’omicidio Pecorelli, quale mandante, verrà processato e assolto (in Cassazione, comunque) Giulio Andreotti. D’altra parte, Pecorelli per il suo modo di condurre e presentare le inchieste giornalistiche, era talmente contiguo al concetto di ricatto (e se ne dibatterà a lungo anche nel corso del processo Andreotti) che diventa difficile stabilire quanti e quali nemici avesse.
E pure Dalla Chiesa, tra terrorismo, antimafia e quant’altro, non aveva probabilmente schiere di amici.
Detto ciò del quadrilatero Andreotti-Gelli-Pecorelli-Dalla Chiesa, due son morti quasi centenari nel loro letto, e due prematuramente di morte non accidentale. E pure questo è un dato di fatto.
Le restanti ipotesi, che coinvolgono servizi segreti e potenze straniere, non sono di per sé false o vere, sono però ancora più arzigogolate e difficili da provare. E soprattutto, con tutto il rispetto per i morti, sopravvalutano il ruolo di Moro all’interno dela politica italiana.
La stessa strategia della fermezza era, oggetticamente, l’unica strada percorribile, a meno di far arrendere le istituzioni al brigatismo eversivo senza possibilità di ritorno. Che poi, all’interno della DC soprattutto, vi fossero personaggi che avevano intravisto nella strategia della fermezza la possibilità di liberarsi di un compagno di partito scomodo, non è da escludere. D’altronde, l’establishment DC, che si trincerava dietro l’amicizia, è sempre stato piuttosto feroce.
Il caso Moro ciclicamente torna d’attualità. In parte spinto dalla famiglia, che ha sempre cercato la verità percorrendo, a volte, strade piuttosto fantasiose. In parte fomentato da chi, e penso soprattutto a Cossiga, non aveva mai fatto veramente ‘pace’ con quei giorni e lanciava accuse senza mai apportare prove.
Le uniche certezze sono che Moro venne sequestrato in via Fani, il 16 marzo del 1978, e ritrovato cadavere nel bagagliaio di una R4 rossa cinquantacinque giorni più.
E per molti di noi, nati nella metà degli anni ’70, rappresenta le dirette dei tg di quei giorni rappresentano il primo ricordo televisivo consapevole.