Viva la Rai, che ci fa crescere sani – Dallas (1981)

La colpa è tutta della Rai, che lo lanciò senza crederci, su Rai Uno (che era ancora la Rete Uno). Come per Beautiful anni dopo un capostruttura con la lungimiranza di una talpa, prima lo azzoppò con una programmazione scellerata e poi lo classificò alla voce boiata.

La serie passò sulla neonata Canale 5 (fino al 1980 si chiamava Telemilano, e Italia 1 Antenna Nord, per quelli che non c’erano ancora) e divenne fenomeno di costume.

Dallas cambiò le nostre innocenti vite. Io avevo sette anni, il Moige era ben lungi dall’iniziare la propria promettente carriera di rompicoglioni e il medio genitore italico se ne sbatteva di ciò che guardava la propria prole dalle 20.30 alle 21.30 (ora in cui la prole medesima veniva più o meno allettata, lo volesse o meno), partendo dalla convinzione errata, che le innocenti creature non capissero una mazza e fossero perciò disinteressate a quanto avveniva sullo schermo. Due errori madornali. Capivamo tutto. E ci piaceva un botto.

Ricchezza, sesso, intrighi, alcool, torbide passioni e lotta il per potere, per ben 14 anni ci hanno ipnotizzato.

Il mio primo ricordo è ovviamente il mefistofelico sorriso di JR, dopo di lui nessun cattivo per fiction fu più lo stesso.

Il secondo l’effetto straniante di questi tizi che giravano con cappello da cowboy, portavano i camperos ai piedi e passavano la giornata parlando di petrolio e mandrie di vacche. Una cosa che, per noi provinciali, rasentava la fantascienza. erano anni che manco il McDonald era ancora arrivato in Italia, e pure Burghy era di là da venire.

Dallas fu probabilmente il primo prodotto a lunga serialià che gli Stati Uniti esportarono. Fin lì le serie iniziavano e finivano nello spazio di una puntata. Al più c’era un filo conduttore, come in Lou Grant o Hill Street. Con Dallas si celebrò un cambiamento nelle regole del gioco, pensiamo alle stagioni che si chiudono con suspense e lasciando un finale aperto (‘Chi ha sparato a J.R.?’ fu un interrogativo che fece storia), alle saghe familiari senza fine e, non ultimo, all’apologia del ricco e famoso (fin lì le telenovelas avevano fatto l’apologia, al massimo, delle sfighe di una tormentata protagonista).

I personaggi di Dallas erano un fenomeno di costume per conto loro.

C’era l’imprescindibile J.R., (Larry Hagman era talmente bravo che ad un certo punto la gente cominciò a mescolare finzione e realtà e iniziarono a minacciarlo di morte), c’era suo fratello, il caro Bobby quello tanto buono e tanto pirla, espressivo come una credenza, sposato con la tenera Pamela. Il caro Bobby, quello che ad un certo punto viene fatto morire, il pubblico si adira e gli sceneggiatori che fanno? Dicono abbiamo scherzato, è stato tutto un sogno della dolce Pamela. Il fatto che il sogno fosse durato 31 puntate risultava, per loro, un particolare trascurabile. E poi c’erano la moglie di J.R., Sue Ellen, un’alcolizzata cronicamente depressa, passivo aggressiva, vagamente ninfomane, una sorta di archetipo del DSM IV e l’antagonista di J.R. un poveretto di nome Cliff Barnes.

Chi era Cliff Barnes? Un perdente professionista, uno che persino Gandhi avrebbe menato di brutto. Uno cui ne capitavano di ogni, eppure continuava ad insistere, con la pervicacia tipica degli imbecilli veri, come quegli attori porno diventati infine impotenti che pure si recano ogni mattina ostinati sul set.

Dallas è l’ipercapitalismo, il neoliberalismo sfrenato, l’edonismo reaganiano portato alla massima potenza. E’ talmente sfacciato da risultare, anni dopo, imbarazzante financo al ricordo. In Dallas non c’è alcuna morale, a parte il fatto che il denaro vince sempre. E che un prepotente pieno di soldi è ancora più vincente di uno soltanto pieno di soldi. Una roba che financo Gekko in Wall Street pare una personcina dabbene

Dopo 35 anni, certe scene paiono di insospettabile innocenza, altre situazioni conflittuali che sfociano in scaramucce sciocche, ma certi momenti sono di tal immonda bassezza da ricordare da vicino la politica e l’economia italiana dei nostri giorni, e tanto basta per generare una curiosa sensazione di déjà-vu.

Il ruolo delle donne nella serie, meriterebbe un post a parte: Lucy, Pamela, la signora Ellie, la stessa Sue Ellen. Una lunga teoria di poverette destinate alla sofferenza dagli uomini della famiglia e dalle loro scelte, più o meno avventate, ma sempre egoistiche. Ritratti che ricalcano alla perfezione il ruolo delle donne in quegli anni e in quei contesti.
Dallas è un classico, forse il classico. Un trattato sociologico, entomologia sociale al massimo livello, ma anche un successo planetario confermato dagli ufficiali d’anagrafe che iscrissero allo stato civile centinaia di Pamele, ma anche parecchie Sue Ellen e J.R. (spesso con ortografie bizzarre).

C’era una volta Dallas, che iniziava con una musichetta finto country: ‘Com’è grande, ma com’è grande l’Americaaaa’ e incollava davanti alla tv milioni di italiani.

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25 pensieri su “Viva la Rai, che ci fa crescere sani – Dallas (1981)

  1. io ti adoro. Dallas era bellissimo, io avevo sei anni e lo guardavo da dietro la porta perché la mia mamma, al contrario, era perfettamente conscia che avrei capito tutto e quindi me lo proibiva. Poi cedette e fu ricompensata poco dopo con la domanda: “Mamma, ma papà è il tuo primo marito?” 😀

  2. tipo, già questo mi manca tutto. non mi manca però l’analisi che ne hai fatto perché, se è vero che non lo guardavo, a distanza di tempo è stato abbastanza facile farne l’esegesi e collocarlo nel panorama della tv italiana di inizio anni ’80.

  3. Come già detto da Dallas ereditai durante l’università il titolo di Sue Ellen per il rapporto disinvolto con i superalcolici, solo per quello però eh?!

  4. sorry, non pervenuto. ma fu nel 1981 che frequentando una lezione inaugurale del corso di Storia dell’arte – era una sorta di rito sempre eguale al quale partecipavano laureati, amici dei laureati, amici del prof, amici degli amici … e anche i nuovi studenti naturalmente – due non più giovanissime ex studentesse sedute dietro di me, ingannarono l’atteso inizio, raccontando l’interesse dei loro rispettivi figlioli per un tale che indossava un giubbottino nero e si faceva spesso sorprendere con entrambi i pollici sollevati. Anche quello, un prodotto televisivo, a quanto capii.

    • Quello che non potevi immaginare era che più di trent’anni dopo, un Presidente del consiglio si sarebbe presentato in giubbottino nero a una trasmissione del sabato sera incentrata sulla pornografia dei sentimenti… Comunque quel prodotto televisivo te lo daterei più sul finire degli anni ’70. Lo guardavo sempre. L’ho rivisto pure di recente in uno di quei canali che ripescano roba vintage. Ma sulla tv sono irrecuperabile, ne sono cosciente

  5. Ricordo tutto (ma il Burghy di San Babila è del 1981, quindi era ben arrivato, e appartiene a quello stesso periodo, ché credo da nessuna parte in Italia Dallas fu idolatrato come a Milano), ma non lo guardavo, mi rompeva solennemente i coglioni, Probabilmente avere un pezzo di famiglia americana rendeva tutto meno esotico (ancorché i miei zii fossero East Coast pura pura), oppure non piaceva alla mia mamma, e dunque non lo guardava. Di fatto come serie da adulti (ma un po’ prima) amavo molto di più Charlie’s Angels. Oppure direttamente i film di John Wayne che a quel tempo erano mandati da Rai Uno una volta a settimana.
    Lo seguivo, indirettamente, quel tanto che bastava a reggere una conversazione a scuola con le amiche, ma ne percepivo anche tutta la noia insormontabile che ho provato da sempre per quasi tutti i grandi prodotti dei palinsesti fininvest. E, tengo a precisare, non per ideologia, proprio per naturale distanza, pensa che culo!

    • Charlie’s Angels era bellissimo. E sì era un po’ prima. Lo guardavo con la zia che era appassionata. Avrò avuto 5/6 anni. John Wayne pure ma perchè piaceva al nonno. Io mi rompevo piuttosto, ma forse ero davvero troppo piccola. Io di prodotti made in fininvest, invece, tonnellate. E ciò conferma che poi, alla fine, la tv non produce condizionamento culturale a meno di essere condizionabili già a monte. Il Burghy chissà perchè lo ricordavo più in là, ma ero piccina davvero nell’81.

    • Cara, di Sentiere parleremo, senza dubbio alcuno, l’ho seguito anch’io per almeno quindici anni e vidi pure il finale, su youtube, con un audio schifoso e in inglese… Credo di aver capito il 5% per il resto mi sono affidata alle immagini

  6. cavoli!, ai tempi a casa mia c’era una sola tv, in salotto. al mio babbo Dallas non interessava proprio quindi NIET. mai saputo niente, se non di straforo dalle compagne di classe, delle torbide avventure alcolico sessuali della famiglia.
    in compenso, il mio babbo, inveiva costantemente contro Dallas prima e contro Beautiful poi (che mai mi ha interessata) per la totale mancanza di moralità. e noi in famiglia a chiederci “non lo guarda, come può saperlo?” 🙂

  7. I miei guardavano una delle prime telenovelas argentine (o brasiliane); la storia in parallelo di tre emigranti. Del resto siamo modestamente terroni. Io ho iniziato invece al ginnasio, per colpa della mia compagna di banco, “quando si ama”; c’era un tipo carino, un moretto sofferto e in bilico su cime tempestose che si chiamava come un camion.
    J.R per me sarà sempre il tenente (?) della strega bionda. Se vuoi ti canto la canzoncina.
    Ma seriamente, hai ragione, quella roba ti poteva condizionare solo se condizionabile a monte.

    • Sulle telenovelas, ci saranno dei post a parte 🙂 Quando si ama, mai visto, invece. E la strega bionda, che mi ricorda, signora mia…
      Invece, facendo le personcine serie, sì, quella roba ti condiziona solo se sei condizionabile. Altrimenti resta quel che è fuffa per riempire le ore di noia. Poi, possono esistere metodi migliori per riempirla, la noia. e possiamo pure parlarne, ma tant’è. Sono solo riempitivi. Quel che conta, politica, etica, società, appartiene a quell’altra cosa che si chiama vita e che mi rifiuto di pensare possa essere mediata da una soap.

  8. Pingback: Tre per ferragosto – IO ME E ME STESSA

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