On the bookshelf – La casa di ringhiera – Francesco Recami

Un buon terzo del libro trascorre fotografando la vita di una casa di ringhiera.

Un appartamento dopo l’altro, un inquilino dopo l’altro.

C’è il Consonni Amedeo, tappezziere in pensione, nonno part-time, appassionato di crimini insoluti di cui gelosamente conserva e classifica ritagli di giornale, c’è la famiglia che dovrebbe essere quella del Mulino Bianco, e invece il papà è alcolizzato; c’è la coppia del Sud, lei procace, lui manesco, che un po’ si ama e molto litiga; c’è la vicina, malevola e impicciona, gretta e meschina, molto spiegabilmente sola; c’è la professoressa dal passato misterioso, un po’ fidanzata col Consonni; c’è l’ottantenne ossessionato dalla sua Opel Vectra.

E proprio mentre tutta questa descrittività inizia vagamente ad annoiare, e cerchi di trovare un senso a tutti questi “ritratti di famiglia in un interno”, inizia a capitare di tutto: il padre alcolizzato scompare, la coppia del Sud ha una lite violenta, e subito dopo lei svanisce nel nulla; il Consonni s’improvvisa detective per scoprire l’assassino di un appassionato di storia egizia e viene rinchiuso in uno sgabuzzino, mentre minacciano di uccidergli il nipotino, l’ottantenne buca le ruote a chi gli ha usurpato il posto auto in cortile e i bambini cercano di aiutare il papà.

Il romanzo ha un’accelerazione improvvisa, con una girandola di situazioni, che, un po’ per caso, un po’ con l’intervento a volte improvvido degli inquilini, si intrecciano, ingarbugliandosi e suggerendo false piste, facendo virare il giallo su una commedia amara.

Quando arriva la polizia, ogni inquilino pensa che la volante sia lì per lui.

Irriverente, delicato, profondo, mai stonato, alla ricerca della bellezza anche nella mediocrità delle situazioni. Un romanzo che ci ricorda che nessuno è mai del tutto innocente.

Dopo davvero troppo, troppo tempo, per il venerdì del libro di homemademamma

On the bookshelf – Di rabbia e di vento – Alessandro Robecchi

Carlo Monterossi torna, nel terzo atto della serie di Robecchi. Dei tre, il più riuscito. Dopo i pur meritevoli (di lettura) Questa non è una canzone d’amore e Dove sei stanotte, questa volta un vento freddo spira su Milano ed è la rappresentazione climatica di una città sempre più ostica, dura, difficile, sempre meno amichevole. Il luogo ideale a far da palcoscenico ad una storia corale di criminalità urbana e di ordinaria crudeltà.

Corali sono i detective in campo. A partire dal Monterossi medesimo, autore di programmi televisivi che è lui il primo a disprezzare; per passare attraverso gli investigatori istituzionali, Tarcisio Ghezzi, vice sovrintendente di polizia, e Carella, che indagano con la tigna propria di chi cerca giustizia. Perché solo così, i fantasmi dei morti ammazzati possono finalmente trovare pace .

E come una specie di coro greco che fa da contrappunto alla storia entrano nel racconto ricche escort e puttane da poche lire, bische clandestine, strozzini, delinquenti che ritornano da un passato che non passa mai, imprenditori dell’etere e conduttrici televisive esperte in pornografia dei sentimenti.

La storia prende il via dalla morte violenta, violentissima, della bella Anna, raffinata escort senza passato, che leggeva Fenoglio e ascoltava Cohen. Un ultimo bicchiere con il Monterossi a casa di lei (ma niente sesso, che il suo cuore si strugge per l’amata lontana), lui che se ne va mentre lei sta dormendo. Il clac di una serratura (contrappunto sonoro per l’intero libro) e il ritrovamento, l’indomani,  del cadavere seviziato della donna.

Nella città che fu da bere e adesso spesso è da sniffare si dipana la storia tra false piste, e conti che prima o poi qualcuno presenta e vanno, inesorabilmente, saldati.

In mezzo, una Milano nerissima, senza speranza e senza speranze, tra disperati, balordi, sceriffi, strozzini, papponi .

Alla ricerca del colpevole certo, ma anche del perché sia stata uccisa una escort bellissima che ascoltava Cohen e leggeva Fenoglio, e, in fondo, anche del perché una bella ragazza che ascoltava Cohen e leggeva Fenoglio sia diventata una escort.

Se un limite vogliamo trovare a Robecchi, uno che anni fa scriveva su Cuore e che oggi è tra gli autori di Crozza, uno che scrive bene e si vede che padroneggia il mestiere, è il fatto di restare sempre un po’ in superficie, nel disegnare i suoi personaggi.

Perché emotivamente la storia non ha mai un cambio di marcia, un climax. E’ una costruzione che non cade (e intendiamoci, di questi tempi, avercene) ma non spicca neppure il volo.

E forse questo è un retaggio televisivo, figlio di un mezzo che richiede una velocità differente. Ma in un romanza di oltre 400 pagine, rischia di essere limitante.

Dopo lunga latitanza, per il venerdì del libro di homemademamma

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On the bookshelf – Il ferro da stiro – Gianni Simoni

Gianni Simoni è un ex magistrato che si occupò del caso Ambrosoli prima e di quello Sindona poi.

Il che dice molto del cursus honorum dell’uomo di legge e nulla sulle sue capacità di giallista.

Invece.

Invece “Il ferro da stiro” è un giallo insolito, considerando che per le prime 130 pagine non succede assolutamente nulla e però è, al contempo, un buon romanzo. Comparandolo con molto di quello che c’è sul mercato, lo si può definire anche molto buono, nel suo genere.

In quelle 130 pagine si rappresenta la quotidianità del pensionando commissario Miceli, alle prese con una svolta cruciale, e quella del già pensionato ex giudice Petri.

Spaccati di vita domestica, problemi idraulici connessi all’età. Tutte cose trite e ritrite che sarebbero supremamente noiose e invece vengono narrate con un garbo leggero che le rende piacevoli.

L’inatteso, in effetti. Soprattutto se è la prima volta che ti approcci ai libri di Simoni e alle avventure della collaudata coppia Petri-Miceli.

Poi, un evento apparentemente banale come la sostituzione di un ferro da stiro, darà il via ad un’indagine che porterà alla soluzione di ben due casi.

Sorretto da dialoghi ed atmosfere ben centrate con, sullo sfondo, la città di Brescia, a me ignota, che, dalle descrizioni, meriterebbe senz’altro una visita.

Ben definiti e delineati i personaggi che non diventano mai macchietta.

Uno stile piacevole ma asciutto.

Forse la parte più debole dell’intera architettura è proprio quella poliziesca, che dopo un po’ diventa inconsistente e, quel che è peggio dato il genere, piuttosto prevedibile.

Ovviamente, dopo lunga assenza, per il venerdì del libro

On the bookshelf – La briscola in cinque – Marco Malvaldi

Prendete un luogo di fantasia, Pineta.

Quattro vecchietti saccenti e pettegoli, un barista (o barrista, come direbbe lui) nipote di uno dei quattro, seduti ai tavolini del bar, un commissario inadeguato, una ragazza trovata morta in un cassonetto. Aggiungete abbondante vernacolo toscano.

Il libro di Malvaldi (questo, ma anche i successivi) è in fondo tutto lì. La sensazione è che l’autore voglia soprattutto raccontare squarci di realtà, in forma a volte ironica, a volte ridicola. Il risultato qualche volta è esilarante, altre vagamente eccessivo.

Come il vernacolo toscano, il cui uso, a volte, sembra un po’ eccessivo a discapito della scorrevolezza dell’insieme.

L’intreccio giallo è abbastanza inconsistente, con un finale tirato via e una scarsa introspezione psicologica dei personaggi.

L’omicidio sembra quasi un diversivo su cui fare interagire i personaggi.

Un libro che consigliare sarebbe eccessivo, e sconsigliare pure. Son quei libri che stanno nel limbo, quei libri che leggi, che vanno via veloci, e che ti lasciano poco.

Non un buon libro, dunque, ma neppure un pessimo romanza. Accostarlo però a Camilleri, o a Manzini pare fuori luogo.

Sia per qualità della trama che per la scrittura che risulta più faticosa e contorta. E che soffre un po’ di questo bisogno di far ridere a tutti i costi e di buttarla continuamente in caciara.

La briscola in cinque

Tutto questo, naturalmente, per il venerdì del libro

On the bookshelf – Pista nera – Antonio Manzini

Nonostante la passione per il poliziesco, trovo sempre più difficile trovare qualcosa che si scosti da quel canovaccio stantio composto dalla sacra triade: omicidio, indagine, soluzione.

Soprattutto, a venirmi spesso a noia, sono i protagonisti, eroi positivi chiamati lì ad incarnare il bene, come se il bene fosse incarnabile, e gli eroi esistessero ancora.

Per questo, forse, lo sbirro Rocco Schiavone, perché di sbirro si tratta, nell’accezione meno nobile del termine, vicequestore romano (vice-questore non commissario, per carità), in temporaneo esilio ad Aosta, risulta un anti-eroe ben disegnato.

Che intendiamoci, non c’è novità alcuna, negli anti-eroi. Ma riuscire a costruirne uno senza cadere nello stucchevole e nel forzato è meno semplice di quanto possa apparire.

In questo senso il poliziotto Rocco Schiavone, protagonista di Pista Nera, risulta un personaggio ben congegnato.

Intanto perché é l’anti-Montalbano ed incarna la summa di tutti gli elementi negativi che non troviamo nel commissariato di Vigata.

Poi perché Schiavone, che non è commissario ma vice-questore (ché la qualifica di commissario, come ripete con vezzo pedante, è stata abrogata da anni), é un disonesto, cresciuto in un quartiere popolare in cui l’alternativa era diventare o guardia o ladro.

E Schiavone ha scelto di essere guardia, mantenendo inalterato l’istinto a delinquere.

L’unica cosa che lo distingue dai criminali che persegue è la divisa che indossa: tolta quella non resta che un uomo scaltro e privo di scrupoli, che infrange senza rimpianti la legge se in ballo ci sono dei quattrini.

Spedito per motivi disciplinari nel gelo, tra le nevi di Aosta, lui, animale trasteverino, si ostina ad affrontare
la vita con loden e Clarks ai piedi. Per schiarirsi le idee, ogni mattina si fa un cannone di marijuana sequestrata.

Il vice questore Rocco Schiavone bisogna prenderlo per quello che è. Scorretto, manesco, irascibile e pieno di debolezze.

E’ un violento che non esita a ricorrere all’aggressività. Non ha nessun rispetto per i colleghi, che umilia e svilisce continuamente.

Non ha rispetto per la divisa che rappresenta, che è disposto ad immolare sulla’ltare del denaro.

Ama la bella vita. Odia il suo lavoro, e non ne fa mistero, per lui un omicidio è solo ‘una rottura di coglioni di decimo grado’.

Insomma, Rocco Schiavone è assolutamente credibile. Perché è un perfetto rappresentante dell’Italia peggiore, quella corrotta, quella senza etica né morale. ed è il senso di triste e dolorosa attualità del personaggio a dare anche all’umorismo una nota amara.

Quando maltratta D’Intino e Deruta, non c’è nulla della leggerezza di Montalbano con Agatino Catarella. Schiavone è solo stronzo. Con diverse sfumature. Che variano dall’un po’ al moltissimo.

Pure, non riesci a trovarlo antipatico, grazie alla sua coatta romanità, che strappa parecchi sorrisi.

E, proseguendo nella narrazione, anche Schiavone svelerà un lato più umano e una sua etica molto personale, che non lo riscattano, ma aiutano a definirlo.

Come romanzo, Pista nera è e resta un discreto giallo, ben congegnato, e senza particolari lacune nell’intreccio. Che sembra una banalità a dirsi, ma ultimamente non è sempre così.

All’inizio sembra un incidente: un corpo abbandonato su una pista da sci, smembrato e dilaniato dal passaggio di un gatto delle nevi. Anche riconoscerlo è un problema, figurarsi capire che non si tratta di incidente ma di delitto. E così, nonostante si tratti di una rottura di coglioni di decimo grado, Schiavone si rassegna a fare quello per cui lo Stato gli passa ogni mese uno stipendio: indagare sull’omicidio al gelo.

Lo fa, e lo fa bene, perchè Schiavone è uno sbirro di quelli bravi, e soprattutto uno che non ama gli vengano servite verità preconfezionate.

La scrittura di Manzini somiglia a Schiavone (e non potrebbe essere altrimenti): asciutta ed ironica.

Protagonisti e comprimari vengono letti e raccontati con gli occhi scazzati del vice-questore dipingendo una realtà di chiaroscuri, poco rassicurante ma con i tratti della sincerità.

L’ambientazione aostana rappresenta un punto di forza. E Manzini rende bene le dinamiche sociali di un microcosmo in cui tutti si conoscono e nel quale una certa freddezza di fondo si stempera nel pettegolezzo selvaggio dietro le tendine.

Tutto questo, naturalmente, dopo una lunghissima pausa per il venerdì del libro

Pista nera

On the bookshelf – La casa degli spiriti – Isabel Allende

Ci sono molti tipi di libri. Alcuni sono francamente brutti, altri si lasciano leggere (ma non ci sogneremmo mai di rileggerli), altri ancora ti portano via con loro, in un’altra dimensione di tempo e di spazio.

La casa degli spiriti appartiene a quest’ultima categoria.

È una storia, qualunque cosa questo significhi. Una storia che attraversa generazioni. Una storia che parla di amore, di morte, di differenze sociali.

Una storia di violenza. Come violento sa essere certo mondo sudamericano. Una storia di amore e passione. Che violenza, amore, morte e passione sono parte fondante di quel mondo. E si intersecano, in un continuum che affascina, ipnoticamente.

È una storia di donne. Donne appassionate. E coraggiose. Spesso sopraffatte dalla violenza e dalla prevaricazione maschile, ma pur tuttavia mai dome.

È una storia di personaggi stravaganti, al limite dell’esoterico, e pure assolutamente reali.

È una storia di politica, di ideali, di coraggio nel perseguirli.

È una storia di cui non intendo narrare la trama. Per chi volesse conoscerla, non sarà difficile rintracciarla in rete, per chi non avesse letto il libro, il consiglio è di limitarsi alla quarta di copertina, che la trama, questa volta, è parte integrante e fondante del libro.

Con l’augurio, a tutte, di essere eteree, ma salde, come Clara, sensuali e ribelli, come Blanca, appassionate, come Alba.

Con D’amore e ombra senz’altro il miglior romanzo della Allende che, in altre prove mi ha convinto meno assai.

Il post partecipa come sempre al venerdì del libro

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On the bookshelf – Le cene eleganti – Piero Colaprico

E con questo libro chiudiamo idealmente la lunga marcia che ci ha portato all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Piero Colaprico, buon giornalista di Repubblica e discreto romanziere (soprattutto in coppia con Pietro Valpreda) non confeziona un libro indimenticabile.

Ma confeziona, questo sì, un libro necessario, e quindi, di per sé, meritevole di lettura.

Un libro didascalico. Dove il gossip fine a se stesso non trova spazio, e vi è molta aderenza a quella che è la verità processuale che emerge dalle carte,

Lo spaccato umano e morale che ne emerge, è di raro squallore

E’ un libro che ci pone di fronte al fatto che queste ragazze, giovani donne, talora giovanissime, sono certamente sì, scaltre, determinate, ambiziose, ma anche, emotivamente, esattamente ciò che sono: delle ragazzine.

Il mondo che si dipana intorno a queste ragazzine è popolato di genitori e fratelli, nel degradato ruolo dei mezzani, che spronano ad esibire pur di avere. Intendiamoci, avere non già un futuro (almeno), ma un presente fatto di ‘regalini’.

Non avvertire disgusto, e disprezzo, verso il satrapo, sì, ma anche verso la variopinta corte dei miracoli che si porta appresso, ci rende corresponsabili, diventa, ad un certo punto, corresponsabilità

E ci indica, una volta ancora, che l’unica strada per uscire dalla pochezza di questi anni, è il recupero di quel sentimento, banale ma mai abbastanza praticato, che va sotto il nome di decenza.

Che qui non si sta facendo della morale. Laddove per morale ci si richiami a certo bigottismo, o a certa pruderie cattolica, che, come noto non appartiene a me, e di converso al blog.

Qui c’è un problema di tutela della dignità e del decoro, e un bisogno di modelli che smettano di considerare ogni cosa come avente sopra un cartellino del prezzo.

Sorridere di Mr. B., darsi di gomito, di fronte a certe boutade, o acerte giovinette esibite tristemente, significa porsi al suo livello, e, alla fin fine, essere come lui.

Sorridere delle cene eleganti, e di quella teoria mortificante di mezzani da poco, significa aver completamente perso di vista il confine tra lecito ed illecito, tra bene e male, tra giusto e sbagliato.

Questo post, partecipa, come d’abitudine, al venerdì del libro.

 

On the bookshelf – 22/11/63 – Stephen King

La prima volta che lo lessi, tre anni fa, lo considerai un buon libro. Non uno dei migliori di King, ma purtuttavia un buon libro. Di certo, a mio personalissimo gusto, il migliore che abbia scritto dopo il noto incidente automobilistico che quasi lo uccise e che segna, comunque la si voglia vedere, una sorta di spartiacque nella sua produzione letteraria.

Si ritorna a Derry, ma questa volta non c’è da sconfiggere il male mimetizzato sotto le spoglie di un malefico pagliaccio, o delle nostre paure, ma nientemeno che il tempo e la Storia. Quella con la S maiuscola.

Che chiedersi cosa sarebbe stato del mondo se JFK non fosse morto a Dallas il 22/11/63.

King mescola sapientemente storia (più correttamente, in realtà ucronìa, cioè fantastoria), amore, dramma. E’ un libro che coinvolge, a tratti profondamente.

Eppure per chi, come me, ha molto amato il King del passato lascia un senso di vaga estraneità. Non rispetto al plot, e nemmeno rispetto al mescolarsi continuo di realtà e fantasy, che sono marchi distintivi dell’autore.

Il senso di estraneità è proprio nel modo di narrare. Finchè non ho compreso che l’estraneità non veniva da King, ma dalla traduzione.

Intendiamoci, questa non è, e non intende essere nemmeno per sottesi, una critica al gruppo Wu Ming e a Wu Ming I (al secolo Roberto bui) che, in concreto, ne è il traduttore.

Per dirla in modo chiaro, sapessi io tradurre come traduce Wu Ming I mi bacerei i gomiti e ogni sera direi graziesignoregrazie.

Fatta questa premessa, necessaria, per me (e suppongo per molti) la traduzione italiana di King coincide con lo stile di Tullio Dobner. Stile che, ovvio, non è obbligatorio che piaccia, ma che ha marchiato quell’autore indelebilmente. Aggiungiamoci che Wu Ming I è una penna (ottima) di suo, il che significa che ha uno stile, proprio, che qua e là si sente.

La domanda in realtà andrebbe diretta all’editore. Affidare uno stesso autore a più traduttori è scelta comprensibile, logica, per certi versi condivisibile. A patto che ciò avvenga con regolarità. Ma se trenta libri dello stesso autore son tradotti dallo stesso traduttore, allora quest’ultimo diventa, giocoforza, la sua ‘penna’ italiana. E se io sono un lettore abituale di quello scrittore, me ne accorgo, da cui il senso di estraneità che avverto per l’interezza del libro.

Per cui, in chiusura, 22/11/63 è un libro bello, a tratti molto bello, certamente ben scritto, altrettanto certamente ben tradotto, ma pure un libro che sai di essere King ma non sembra totalmente di King, da cui il giudizio, forse, un po’ a metà.

Questo post, come d’uso, partecipa al venerdì del libro.

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On the bookshelf – Bambini infiniti (Storie di campioni che hanno giocato con la vita) – Emanuela Audisio

Dopo lunga assenza si torna a parlare di libri per il venerdì del libro, con un titolo ricomparso da sotto cumuli ammassati.

Un libro particolare, molto amato quando lo lessi, molto amato rileggendolo. Sensazioni ripetute non poi così frequenti.

Bambini infiniti di Emanuela Audisio, è un libro speciale, fin dal titolo. Anzi dal sottotitolo.

Storie di campioni che hanno giocato con la vita.

Ottima giornalista che scrive di sport, al pari di altri grandi prima di lei, Brera e Arpino su tutti, la Audisio si esprime al meglio là dove l’apparenza si trasforma in essenza, là dove al trionfo si sostituisce la vita.

Perchè il gesto sportivo rimane per certi versi sullo sfondo. Lei racconta soprattutto una parabola umana. E spesso lo sport, anche e soprattutto tra i fuoriclasse, ci mostra come sia difficile restare in equilibrio tra essere e avere.

Giornalista di classe, con una smisurata capacità di sondare le profondità e le debolezze dell’animo umano, racconta gli atleti nel momento del trionfo, certo, ma anche in quello più spesso desolante, più raramente trionfante, del dopo. Delquando si smette di essere idoli per ricominciare ad essere uomini.

Il suo senso della pietas, che è ben altro, e va ben oltre al comune senso della pietà, ci regala ritratti convincenti di campioni caduti, invecchiati o detronizzati. Se dovessimo raccontare il “Galata Morente”, quella sarebbe la chiave per narrarne.

Un libro per tutti.

Per tutti noi, bambini infiniti, che almeno una volta da piccoli abbiamo sognato di segnare un gol come Pelé, o volteggiare leggere tra le parallele come la Comaneci.

Per tutti quelli che entrando in un campetto di periferia han pensato di entrare tra le luci del Santiago Bernabeu, o che calpestando la terra rossa di un campo da tennis di provincia, si son sentiti, per un attimo Bjorn Borg.

On the bookshelf – IT – Stephen King

Emoziona. Impaurisce. Commuove.

I nostri nipoti, tra cinquant’anni, lo vedranno catalogato nelle biblioteche alla voce classici.

Ridurlo a un libro horror, è uno scempio, oltre che una sciocchezza. Perché It di Stephen King è molto più di un libro horror.

E’, anzitutto, un libro che impiega pagine e pagine per creare un’atmosfera. Attenzione. Non un’atmosfera qualunque. E non sono pagine e pagine vergate invano. Ciascuna di quelle pagine è strettamente funzionale al racconto, alla storia, al trasmettere emozioni.

La storia dei sette Perdenti di Derry ha, al proprio interno, un’infinità di elementi.

Sorta di romanzo di formazione con sette ragazzini cui la vita non ha fatto sconti, che diventano degli adulti. e che, da adulti, dovranno confrontarsi, di nuovo, con le proprie paure.

Quattro ragazzini che hanno sconfitto per la prima volta la paura con la forza della loro amicizia.

E’ un libro con una caratterizzazione straordinaria dei personaggi. Bill, Richie, Eddie, Ben, Beverly, Mike, Stan sono, tutti, descritti con un’introspezione psicologica e una precisione sulle vicissitudini, che non scade, mai, nella banalizzazione.

E’ un libro che tratta la vita, nelle sue sfaccettature. La paura, l’amicizia, l’infanzia, la crescita, la maturazione, l’amore e la morte.

E’ un libro che corre per circa milletrecento pagine, eppure, non te ne rendi conto, e il problema non è finirlo, ma il fatto che finisca troppo presto.

E’ un libro che ti resta dentro. Da allora, ogni volta che ho ascoltato la frase ‘Lo vuoi un palloncino?’ un brivido m’è corso lungo la schiena. Lo stesso brivido che ritorna ogni volta che compare un clown.

Questo post, come di costumen, partecipa al venerdì del libro di homemademamma.