C’era una volta un Re – Vittoria del Regno Unito – La nonna d’Europa

Vittoria di Kent, nata Alexandrina Victoria, vede la luce a Londra, nel maggio del 1819. È figlia di una principessa tedesca, Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld, e di Edoardo Augusto di Hannover, duca di Kent e Stratham, figlio quartogenito di re Giorgio III.

Di primo acchito, due sono le evidenze. Che la creatura ha ben poco sangue inglese, essendo, di fatto, di ascendenza tedesca, e che, sulla carta dovrebbe avere scarse probabilità di ascesa al trono.

In realtà se la prima affermazione è del tutto vera, la seconda ha sfumature ben più complesse. I figli maschi della pur ampia discendenza di Giorgio III, soprattutto il secondogenito, il terzogenito e il quartogenito avevano mostrato una certa allergia al matrimonio, mentre il primogenito, Giorgio Augusto di Hannover, il futuro Giorgio IV, di cui gli annali ricorderanno, una notevole indulgenza al lusso e una evidente dissolutezza, aveva avuto una sola figlia, la principessa Carlotta, nata dal suo più che turbolento matrimonio con Carolina di Brunswick-Wolfenbuttel, altra principessa tedesca, peraltro, a sua volta, non fulgido esempio di equilibrio mentale.

Nel 1817, però, Carlotta muore improvvidamente di parto, dando alla luce il suo primogenito. Morto anch’egli. D’altra parte, le morti per parto non sono insolite all’epoca. E, paradossalmente, alla faccia del privilegio, rischiano di mietere più vittime tra le principesse reali che in tutti gli altri strati sociali. Perchè queste donne, sottoposte a estenuanti tour de force riproduttivi, morivano spesso prima dei 30 anni. Più insolito, forse, che ciò sia accaduto ad una principessa reale destinata al trono (e con una linea dinastica successoria abbastanza sguarnita), ma tant’è.

Il problema della successione ovviamente esplode in tutta la sua potenza.

Le figlie di Giorgio III, tutte senza discendenti, sono messe immediatamente fuori gioco dal fattore età. Nessuna di loro è una giovinetta. Non resta quindi che obbligare i recalcitranti figli cadetti a dire infine addio a quel celibato sin lì strenuamente difeso.

In realtà, il secondogenito di Giorgio III, Federico di Hannover aveva sposato una nobildonna prussiana ma il matrimonio, era naufragato rapidamente e senza lasciare eredi. Mentre il terzogenito, Guglielmo, Duca di Clarence, non avendo mai preso in considerazione la possibilità di salire al trono, aveva vissuto a lungo more uxorio con un’attrice, che non aveva potuto sposare per ragioni più che ovvie, e coltivato diverse relazioni, da cui era derivata una consistente progenie. Progenie purtuttavia illeggittima, e, peranto inutile.

Ma le soluzioni, a cercarle, si trovano. E la soluzione in questione assume le sembianze di Adelaide di Sassonia-Meiningen, una principessa tedesca (l’ennesima, effettivamente, anche perchè le principesse delle casate secondarie tedesche rappresentavano un serbatoio inesauribile di consorti essendo, nei fatti, la metà di mille). Il matrimonio, combinatissimo, fu, al di là di ogni pronostico felice, ma sostanzialmente inutile: la discendenza della coppia, costituita dalle principesse Carlotta ed Elisabetta, non supererà la prima infanzia (altro fatto tutt’altro che insolito).

Andrà meglio, a Edoardo Augusto che però non salirà mai al trono (Vittoria infatti il trono lo erediterà dallo zio Guglielmo, Re Guglielmo IV) poiché morirà di polmonite l’anno successivo alla nascita della figlia.

Vittoria crebbe affidata alle cure della madre, una donna oppressiva e dominata dalla figura del suo amministratore, Sir John Conroy, che ne influenzava pesantemente le scelte e che interferiva ampiamente nell’educazione della bambina. Su Conroy, negli anni vennero versati fiumi d’inchiostro e molto si disse (all’epoca) e si scrisse, nel tempo, sul rapporto tra la Duchessa di Kent e il suo amministratore.

Nel frattempo, la bambina divenne ufficialmente l’erede al trono ad undici anni quando, morto lo zio, Giorgio IV, salì al trono l’altro zio, il già citato Duca di Clarence, che passerà agli annali come Guglielmo IV.

Considerata la durata della vita media all’epoca, un regnante infante non era una stravaganza, ma una concreta possibilità, e il Parlamento nel 1831 promulga il Regency Act, un atto per la reggenza in ragione del quale, nel caso in cui il re fosse morto prima della maggiore età di Vittoria, la reggenza sarebbe passata pro-tempore nelle mani della di lei madre. Con un’ingenuità che sorprende, il Parlamento sceglie di non prevedere un consiglio per limitare i poteri del reggente nonostante lo stesso Guglielmo IV non avesse alcuna stima delle capacità di giudizio della cognata, sino a giungere al punto di dichiarare nel 1836 che avrebbe fatto tutto il possibile per sopravvivere fino ai 18 anni della principessa, pur di evitare una reggenza. Venne accontentato. Morirà un mese dopo il diciottesimo compleanno dell’erede al trono.

Se la madre e Sir Conroy pensavano di manovrare la giovane Regina, probabilmente non si erano mai curati do conoscerla davvero. Anzi, uno dei primi atti della giovanissima sovrana fu proprio quello di allontanarsi dalla soffocante influenza materna.

Nel frattempo, a meno di due anni dall’incoronazione, evidente era la necessità che la giovane Regina avesse un consorte. Ma quel problema era già in larga parte risolto.

Quando ancora era un’erede al trono, nel 1836, Vittoria incontrò quello che poi divenne suo marito. Il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha. L’incontro avvenne su spinta dello zio materno di Vittoria, Leopoldo, re dei Belgi. Il fatto che Vittoria e Alberto fossero primi cugini (il padre di lui era il fratello della madre di lei), non turbò nessuno. L’unica ostilità provenne dal sovrano in carica, Guglielmo IV che avrebbe preferito per la nipote il secondogenito del re d’Olanda, il principe Alessandro di Orange-Nassau. Nulla di personale, peraltro. Solo le consuete beghe di strategie politiche. Le stesse, en passant, che animavano la sollecitudine del già citato Leopoldo del Belgio.

I due si sposano nel 1840, e sembra assodato che sia stato un grande amore. Albert ebbe senz’altro, un notevole ascendente sulla regina. Fu un valido appoggio, un ottimo consigliere, si occupò con fermezza dell’organizzazione della vita di corte e ragionevolmente patì, come altri dopo di lui, l’essere relegato al ruolo di Principe consorte che mai riuscì a farsi ad essere elevato al rango di Re.

La loro prima figlia, Victoria, nacque nel novembre del 1840. Seguita da altri 8 figli che, sopravvissero, tutti sino all’età adulta.

Alberto morirà ad appena 42 anni, forse di tifo, più probabilmente di cancro allo stomaco, lasciando la regina in uno stato di prostrazione assoluta che fece cadere una cappa di puritanesimo e di senso di oppressione sulla corte e, più in generale, sui costumi del Paese.

Il suo regno, secondo per durata solo a quello della discendente Elisabetta II, durerà 63 anni 7 mesi e 2 giorni, e darà il nome ad un’epoca, quella vittoriana.

Il suo lunghissimo regno sarà caratterizzato dallo sviluppo industriale, politico, culturale, scientifico e militare, oltre che dall’espansione dell’Impero Britannico.

Ultima sovrana del Casato di Hannover, a partire dal figlio e successore si aprirà l’epoca della casata Sassonia-Coburgo-Gotha, che perpetuerà, per i posteri il ricordo del principe Alberto (che a differenza di tutti quelli che verranno dopo potrà, almeno, dare il proprio cognome ai figli) e che è, ancora oggi, la casata regnante (Windsor non è che un artificio lessicale di cui varrà la pena di parlare, ma un’altra volta).

Nell’esaltare però la stabilità, la floridezza, la potenza commerciale e coloniale del Regno Unito in epoca vittoriana non possiamo prescindere dal ricordare le profonde ferite che questo sviluppo inflisse alla società, alla perenne ricerca di un mai trovato equilibrio tra progresso e sfruttamento delle masse, sacrificate, queste ultime, in nome uno sviluppo che si fondò massimamente sullo sfruttamento minorile, con migliaia di bambini che persero prematuramente la vita nelle nascenti fabbriche e nelle miniere di carbone.

E se controversa fu l’epoca vittoriana, anche la donna Vittoria ebbe molte luci e altrettante ombre. Sul piano internazionale, fu una figura di spicco non solo per il peso crescente dell’Impero Britannico all’interno dello scacchiere mondiale ma anche per i legami familiari che la sua famiglia intrattenne con le case regnanti di mezza Europa, facendola guadagnare il soprannome di “nonna d’Europa”, in ragione dei matrimoni della sua numerosa prole, da lei combinati con assoluta sagacia strategica,

Al suo deflagrare, la prima guerra mondiale, vide, su fronti differenti, almeno tre dei suoi nipoti: il kaiser Guglielmo II di Germania figlio della primogenita Victoria, re Giorgio V del Regno Unito (figlio del suo successore, il bon vivant e abbastanza inetto Edoardo VII), e lo zar Nicola II di Russia che aveva con la principessa Alessandra (figlia della terzogenita, principessa Alice).

Ad oggi, sui residui troni europei, siedono regnanti nelle cui vene ancora scorre il sangue dell’illustre antenata: oltre all’assolutamente Elisabetta II del Regno Unito, ricordiamo Felipe di Spagna (per via sia materna che paterna), Margrethe di Danimarca, Harald V di Norvegia, Carlo XVI Gustavo di Svezia. Senza contare i detronizzati: Guglielmo II di Germania, Costantino II di Grecia, Pietro II di Jugoslavia e Michele di Romania.

E il sangue, proprio il sangue, quello di Vittoria, che recava in sé i geni dell’emofilia, ad un certo punto decimerà molte delle monarchie europee e avrà un ruolo, neppure troppo secondario, nella caduta dello Zar Nicola II e nello scatenarsi della Rivoluzione d’Ottobre.

Ma di questa, e altre storie, parleremo più in là.

Storie dell’altro ieri – 1992/La genesi

Anno 1992. Anno bisestile, per la precisione.

L’Italia è governata da un quadripartito. Democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. A presiedere il consesso per la settima volta nella storia repubblicana, Giulio Andreotti.

Presiede la Repubblica Francesco Cossiga.

Il Milan di Berlusconi è campione d’inverno. Io ho 17 anni e frequento la quarta superiore. Tutti si lamentano che c’è la crisi, e non sanno neppure cos’é. Per il momento.

Vincenzo Consolo con Nottetempo, casa per casa vince il Premio Strega, mentre Alberto Bevilacqua vince il Bancarella con I sensi incantati.

Il bestseller dell’anno è Il mondo di Sofia, di Jostein Gardner (uscito l’anno prima, ma noi dovevamo attendere la traduzione). Henning Mankell, invece, dà alle stampe la prima delle avventure di Kurt Wallander. Non lo sappiamo ancora ma impareremo ad amare la Scania.

L’album più venduto è Carboni di Luca Carboni. Al secondo posto le Greatest Hits II dei Queen. Freddy Mercury ci ha lasciati qualche mese prima, nel novembre del 1991.

A giugno andranno in scena in Svezia i campionati Europei. L’Italia, da vera pippa, manco si è qualificata. Il mancato accesso alla fase finale è costato il posto ad Azeglio Vicini, il c.t. delle notti magiche di Italia ’90. Al suo posto, con gli occhi più spiritati che mai, Arrigo Sacchi.

Insomma, il 1992 ha tutte le carte in regola per essere un anno come tutti gli altri.

E invece. E invece vatti a fidare degli anni bisestili.

E’ il 17 febbraio 1992. A Milano, ragionevolmente, fa freddo, e, eccezion fatta per i milanesi, la maggior parte degli Italiani ignorano cosa sia la Baggina, e pure il Pio Albergo Trivulzio.

La lacuna verrà ben presto colmata.

E’ il 17 febbraio 1992, si diceva. Un oscuro ingegnere milanese, iscritto al PSI, tale Mario Chiesa, viene arrestato mentre accetta una tangente di sette milioni di lire da Luca Magni, imprenditore, proprietario di una piccola impresa di pulizie, che versa la somma per assicurarsi l’appalto delle pulizie del Pio Albergo Trivulzio, la Baggina come la chiamano i milanesi, la Casa di Riposo per anziani di Milano, simbolo della generosità de Milan, al pari delle Stelline e dei Martinitt.

In realtà la presidenza del Pio Albergo Trivulzio significa potere, tanto potere. E Mario Chiesa, che ne è il presidente, al potere è avvezzo. Assessore del Comune di Milano con Carlo Tognoli sindaco, si piazza in assessorati chiave. Lavori pubblici prima ed edilizia scolastica poi. Quando a Palazzo Marino sale il cognatissimo, Paolo Pillitteri, si installa al Pio Albergo Trivulzio con la ferma intenzione di restarci.

L’arresto fa scalpore. Non tanto per la cifra, 7 milioni di lire. Quanto per il fatto in sé.

Bettino Craxi liquida la faccenda con l’usuale arroganza. Definisce senza meno Chiesa ‘un mariuolo’, ‘una scheggia impazzita’ di un partito altrimenti integro.

Chiesa presumibilmente si risente, nel chiuso della sua celletta a San Vittore, ma è uomo di mondo ed è disposto a farsene una ragione, soprattutto per una degna contropartita. Invece, ancora non lo sa, ma ha già commesso il suo errore più grave.

Che, passi lasciare la moglie. Ma micrare sugli alimenti, è prassi sconsigliabile. Amorale, anche. Ma sconsigliabile, principalmente. Soprattutto se la moglie, ormai ex, ha buona memoria e discreta conoscenza dei fatti tuoi.

Ed è così, grazie alla signora Laura Sala, che gli inquirenti giunsero ai conti svizzeri ‘Levissima’ e ‘Fiuggi’ ma soprattutto al fiume non già d’acque minerali, ma di fondi illeciti, che scorrevano nelle fogne di quella che credeva d’essere la capitale morale d’Italia.

Chiesa, che come si diceva è uomo di mondo, capisce rapidamente che tutto è perduto, soprattutto l’onore, ed inizia a parlare. Parlerà, ininterrottamente, per una settimana.

Il 2 aprile gli verranno concessi gli arresti domiciliari. Sta per cominciare il biennio più lungo della Repubblica. E un anno banale si trasfigurerà per sempre.

… Continua

Storie dell’altro ieri – 1992

Che non si dica che qua siamo da meno che su Sky.

L’idea m’è venuta l’altra sera mentre guardavo un pezzo di 1992 – La serie, in onda appunto su Sky. Operazione non malvagia (ma con una recitazione imbarazzante soprattutto per quel che concerne il reparto femminile).

Ci provo. A puntate. Come nelle migliori soap. D’altronde, col senno di poi, della soap, l’intera vicenda ebbe molti elementi.
Stay tuned.

1999 – Carlo Azeglio Ciampi

L’Italia che congeda Scalfaro nel 1999 è copia fedele del Paese allo sbando dei nostri giorni.

Una sinistra inesistente tenta continuamente di scendere a patti con Berlusconi, con risultati che sarebbero comici, non fossero tragici. D’Alema imperversa con la sua Bicamerale, e viene messo all’angolo da Silvio, la cui scaltrezza, in quegli anni, è all’apice. Ancora in un angolo le cene eleganti, dedica le sue migliori energie a fottere noi. D’altronde, quella è la sua attività preferita, e a qualcuno deve pur toccare.

Il nuovo Presidente, il decimo della storia repubblicana, i partiti, ormai all’angolo ed incapaci, lo vanno a prendere fuori dal Parlamento.

È Carlo Azeglio Ciampi, quello stesso tecnico divenuto premier nel 1993 mentre sul Paese spirava impetuoso il vento di Tangentopoli, e la Mafia, mai così forte, metteva in ginocchio lo Stato; l’uomo che nel biennio 1996-1998, come ministro del Tesoro del primo governo Prodi, operò il ‘miracoloso aggancio’ all’Europa della moneta unica. Che poi su quell’aggancio, e su quanto derivatone si possa aprire un dibattito, è altra cosa. Ma diamo atto che Silvio ed i suoi mai ne sarebbero stati in grado. E che quella, col senno di oggi, era probabilmente l’unica strada percorribile.

Nonostante il rovinoso fallimento della Bicamerale, i due player dell’epoca, D’Alema e Berlusconi, sono coloro che fanno la partita del Quirinale. E non hanno dubbi. Il nuovo capo dello Stato deve riportare il Quirinale a luogo neutro. Ma per esorcizzare il fantasma di Scalfaro (ma anche quelli di Pertini e Cossiga) l’unica strada perseguibile è trovare qualcuno che non sia un abile politico, e, soprattutto, che sia poco avvezzo alle manovre di palazzo.

In candidati in quella primavera del ‘99, sono comparse per il teatrino.

Berlusconi propone due nomi: il sempiterno Amato,sin lì perfetto garante del trust Mediaset, ed ex craxiano (anche se lui vorrebbe farlo dimenticare); ed Emma Bonino, eletta con Forza Italia nel ’94 ed in quel periodo orbitante nella galassia del centrodestra, più che per le sue posizioni per il fatto che Berlusconi in persona l’ha scelta come commissario europeo insieme a Mario Monti.

Il centrosinistra scarta entrambi: su Amato continuano a piovere veleni dal passato, con gli strali che Craxi da Hammamet scaglia via fax; la Bonino non è ancora il totem che diventerà, anche se, come sempre, sarebbe quella con le migliori capacità.

Il centrosinistra propone tre ex democristiani: Rosa Russo Jervolino, ex presidente popolare, una sorta di emanazione di Scalfaro, prima donna ministro degli Interni; Nicola Mancino, presidente del Senato e Franco Marini, ex leader della Cisl, popolare anch’egli.

L’unico vero papabile, Romano Prodi, viene spedito con foglio di via alla Commissione europea.

Ciampi va bene a tutti. E il 13 maggio, al primo scrutinio viene eletto. Come Cossiga.

Lo votano tutti, tranne la Lega Nord e Rifondazione comunista.

Tutti felici, gli Italiani, terrorizzati all’idea di un messaggio di fine anno gracchiato dalla voce di Rosa Russo Jervolino (che sarà poi terribile sindaco di Napoli), ma anche i politici, che auspicano un Capo dello Stato taciturno.

La speranza è infatti che Carlo Azeglio, una lunga carriera in Bankitalia culminata nella nomina a governatore, occupi la carica con il piglio di un Grand Commis dello Stato. I politici, in aggiunta si augurano che abbia anche una certa propensione a farsi scivolare le cose.

Sul tacere, fa quel che può, ma l’ambiente non lo aiuta.

Nel 2001 la campagna elettorale, che segna il ritorno di Silvio, sarà tra le più infuocate che il Paese ricordi.

Lo attenderà un quinquennio di passione, fatto di leggi ad personam, leggi vergogna, attacchi alla magistratura ed alla Costituzione, figure penose in Europa.

Esternare gli tocca.Livornese, 79 anni, sposato con Franca Pilla, un paio di figli. vivrà un settennato di pochi acuti e molti bassi.Inizialmente pensa di arginare Silvio facendo qualche cazziatone in forma privata, ma capisci presto che non è cosa. Di fronte ai suoi continui strappi istituzionali, alle intemperanza, agli attentati alla costituzione.

Dal 2001 al 2003 si farà andar bene anche quello che va male, malissimo. E si impunterà sulle fesserie. Rifiuta il ministero dell’interno a Maroni, facendolo dirottare al Welfare, ma non batte ciglio di fronte alla legge sulle rogatorie, alla legge sul falso in bilancio e alla Cirami sul legittimo sospetto.

Sembra quelle storielle in cui il padre è ladro, la madre batte, ma si dà un ceffone al bambino perchè parla con la bocca piena.

E aggiorno eccezionalmente il post portando all’interno una giustissima osservazione della ‘povna, nei commenti perchè proprio del 2001 sono due delle uscite più infelici dell’intero settennato.

La difesa dei repubblichini, che mette tutto sullo stesso piano, memoria comune e memoria condivisa, che sullo stesso piano non sono affatto e che è ancor più grave all’interno del suo personale percorso di risveglio dell’amor patrio.

E il comportamento indifendibile tenuto a Genova, quando uscì con Berlusconi, il venerdì e ancor peggio il sabato, suggellando con la sua presenza istituzionale la sospensione di fatto dello Stato di diritto.

Si riempiono le piazze di girotondini, le proteste sono all’ordine del giorno.

E anche Carlo Azeglio cambia registro. Dal 2003 comincia a rispedire al mittente gli scempi più evidenti e rimanda indietro le leggi sui tribunali minorili ma soprattutto quelle sulla tv (la famigerata Gasparri) e quelle contro la giustizia (la Castelli, che modifica l’ordinamento giudiziario e la Pecorella che abolisce l’appello contro le assoluzioni).

Diventa anche lui, come Scalfaro, un nemico, un “comunista mascherato”.

L’organizzatissima macchina del fango made in Arcore si mette al lavoro: si allude al figlio e ai suoi guai finanziari; e soprattutto all’operazione Telekom Serbia, ai tempi del governo Prodi, quando Ciampi era ministro del Tesoro.

Il centrodestra istituisce una commissione parlamentare ad hoc, trasforma un mestatore tale Igor Marini in testimone chiave, e raccoglie accuse false a Prodi, Fassino e Dini.

Ma alcuni si premuano di far filtrare voci che paiono tirare in ballo il Presidente. Pare non farsi intimidire, ma insomma,  firmerà comunque altre discrete procherie quali la Bossi-Fini, il lodo Schifani, la ex-Cirielli. Senza contare l’ok alle missioni in Afghanistan e in Iraq che, per chi non l’avesse capito, eran o guerre a tutto tondo.

Nel contempo, pervaso di spirito patriottico, andò in fissa con tricolore ed inno. E nonostante alcune giuste battaglie (festeggiare il 2 giugno, è, giusta cosa, che non s’è mai visto un Paese che non festeggia se stesso), il tutto ebbe spesso un tono macchiettistico.

Come macchiettistica fu, spesso, Donna Franca, sempre con lui, ovunque, a tagliar nastri e a fornire opinioni. Peraltro non richieste.

A molti fece simpatia, a me, pochissima. E approfitto per dire che la sua boutade sulla tv deficiente, era corretta nel merito, per carità, ma odiosa nella forma. Che, nell’ordine, la signora era sposata ad una carica dello Stato, non ‘la’ carica dello Stato, e c’è una differenza, mica sottile. Secondariamente se la First Lady dà del deficiente ad una trasmissione televisiva ed al suo conduttore, quest’ultimo non può rispondere e, eventualmente, asfaltarla, troppa è la disparità di ruoli.

Quindi più che di simpatia parlerei di arroganza.

Il settennato Ciampi si può riassumere dicendo che tutto quel che fece fu troppo poco, ed in generale troppo tardi. ed è un rischio elevatissimo, soprattutto quando si eleggono tecnici e non politici navigati, piaccia o no. ed è la ragione per cui in generale propendo per soluzoni politiche anziché tecniche.

Fatta salva la buona fede personale, ovviamente che se ripenso al suo successore, mi vien da rimangiarmi tutto.

Ma questa, come sempre, è un’altra storia.

Un settennato in pillole

Il 20 maggio 1999 a Roma, le rinate Brigate Rosse uccidono il consulente del ministero del lavoro Massimo D’Antona

Il 28 luglio 2000 viene stampata l’ultima banconota della Lira Italiana (5.000 Lire). Finisce un’epoca. Se potessi avere mille lire al mese cantavano i nostri nonni. Mentre i nostri figli ci chiederanno cos’erano.

L’11 settembre 2001 quattro gruppi di terroristi islamici, coordinati tra di loro, dirottano aerei di linea e si dirigono verso quattro obiettivi, colpendone tre: il Pentagono a Washington ed entrambe le Torri Gemelle di New York. Queste ultime crollano dopo meno di un’ora di incendi devastanti. Complessivamente in questi quattro attacchi muoiono circa 3000 persone. New York cambia skyline e noi non saremo più gli stessi

Il 1º gennaio 2002 nei 12 paesi facenti parte dell’UE entrano legalmente in circolazione monete e banconote in Euro. Cose che fino a ieri costavano mille lire, passano all’improvviso a costare un Euro. Un po’ storditi e con conti correnti (allora) meglio pasciuti, non facciamo un plissé. Ce ne accorgeremo. E saranno cazzi

Il 9 aprile 2003 le truppe Usa entrano a Baghdad. La capitale è sostanzialmente sotto controllo delle forze angloamericane. Saddam Hussein è il ricercato numero uno. L’entrata a Baghdad è del tutto pretestuosa. 12 anni dopo, possiamo sommessamente suggerire che avevamo ragione noi, quando dicevamo che, pur volendo ignorare l’aspetto umanitario, era proprio un’idiozia strategicamente.

il 29 febbraio 2004 in Asia milioni di polli vengono uccisi in seguito ad un’epidemia di influenza aviaria che ha causato la morte di almeno trenta persone. Inizierà il periodo delle sospette pandemie. Con annesso tormentone annuale.

Il 4 marzo 2005 dopo aver liberato la giornalista de Il manifesto Giuliana Sgrena, viene ucciso a Baghdad da “fuoco amico” statunitense il funzionario del SISMI Nicola Calipari. La magistratura italiana appurerà che il soldato Mario Lozano ha scaricato 58 colpi contro l’auto che li trasportava. Tutto da solo. Un personaggio Marvel praticamente.

Il 3 gennaio 2006 Saddam Hussein dichiara di preferire la pena di morte per fucilazione. Lo impiccheranno il 30 dicembre. La domanda è: perché chiederglielo, a questo punto.

1992 – Oscar Luigi Scalfaro

Il 1992 inizia male.

Il 17 febbraio, a Milano, è finito in carcere per tangenti il misconosciuto Mario Chiesa. Come sempre la storia inizia con le banalità. Un corrotto politico di piccolo cabotaggio la fa lunga nel pagare doverosi alimenti all’ex consorte. Questa si spazientisce ed inizia Mani Pulite.

Il 13 marzo, a Palermo, Cosa Nostra ammazza per strada l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima, considerato un traditore. Tre colpi di pistola, mentre sta scendendo dall’auto. Prova a fuggire, morirà bocconi su un marciapiedi uno degli uomini più potenti di Palermo e della Sicilia tutta.

Il capo della Polizia Vincenzo Parisi chiarisce che c’è una lista di politici predestinati pure loro, da Mannino a Vizzini, da Martelli ad Andreotti.

Il 6 aprile, il quadripartito che sostiene il VII governo Andreotti esce devastato dalla consultazione, la Lega di Bossi è al 9%, ma è un dato nazionale. Al Nord è largamente sopra il 20.

Il 25 aprile Cossiga si dimette con due mesi di anticipo, prima che lo dimettano gli altri a mani nudi: il neopresidente del Senato, Giovanni Spadolini, farà da facente funzioni.

Cossiga la tira a tutti dicendo “saranno giorni terribili fino all’elezione del mio successore”. Peggio di Cassandra, la profezia s’avvererà, e accadrà di tutto ed anche di più.

I partiti sono del tutto fuori controllo, la magistratura impazza, il Paese prima è attonito, poi ridacchia, e alla fine perderà la testa.

Il 13 maggio il Parlamento in seduta plenaria sotto la guida del neopresidente della Camera, il novarese Oscar Luigi Scalfaro, comincia a votare.

L’atmosfera è vieppiù serena. Tanto che Pannella chiede a Scalfaro di garantire la segretezza del voto.

Scalfaro, che è un professionista, va detto, e ha il senso del ruolo, a tempo di record, fa allestire dai falegnami di palazzo due cabine di legno foderate con un drappo rosso. Un oscuro missino, tal Carlo Tassi, che circola in camicia nera e non si capisce perchè non venga denunciato per apologia del fascismo (che sarebbe un realto, per la cronaca), rivolto ai banchi della maggioranza urla “ladri!” agitando un paio di manette. Scalfaro tenta di zittirlo, quello si stizzisce e lo informa che nessuna legge lo prevede, e il presidente ribatte: “Ma non c’è nessuna norma che la obblighi a ragionare! Comunque complimenti, lei deve avere un polmone di riserva”. D’altronde Scalfaro è uno non nuovo alla risposta tranchante, noto rimase un suo interbvento ad un Congresso DC: “La festa del socio nella DC dovremmo tenerla il 2 novembre, vista la presenza massiccia di defunti nelle liste degli iscritti al partito.”

Per i primi tre scrutini, ciascun partito vota il suo candidato di bandiera: Giorgio De Giuseppe (Dc), Nilde Iotti (Pds), Giuliano Vassalli (Psi), Gianfranco Miglio (Lega), Alfredo Pazzaglia (Msi), Paolo Volponi (Rifondazione), Norberto Bobbio (Verdi), Antonio Cariglia (Psdi), Tina Anselmi (Rete), Salvatore Valitutti (Pli).
Dalla quarta votazione, iniziano i giochi, quelli veri. L’accordo del CAF, acronimo della sacra triade  Craxi-Andreotti-Forlani prevede che Craxi torni a Palazzo Chigi, e uno degli altri due prenda la via del Colle.
Si lancia il nome del segretario DC, Arnaldo Forlani, che al quinto scrutinio prende 479 voti e al sesto sale a 496: IL quorum dei 508 è ad un passo, e col senno di poi chissà come sarebbe andato tutto quanto.
Ma dal sesto scrutinio i voti cominciano misteriosamente a scendere, impallinato dai franchi tiratori dietro i quali si vede la manina del Divo Giulio e della sua corrente.
Perchè i voti alla conta dovrebbero essere 540 voti: e ne mancano 80, e di essi almeno 50 DC.

Il 17 maggio, ormai sbolso, Forlani si ritira.

Sembra tutto pronto per Giulio nostro, che a quel traguardo, sia come sia, tiene davvero.

Ma quel che resta dei fedelissimi di Forlani teme lo strapotere andreottiano e si mette di mezzo.

Il Pds di Occhetto spariglia le carte e propone Giovanni Conso, giurista, cattolico, super partes, presidente emerito della Consulta.

La Dc non ci pensa neppure. I socialisti ci provano con Giuliano Vassalli, e i repubblicani con Leo Valiani. In poche ore vengono bruciati dei pezzi da novanta: Bobbio, De Martino e Martinazzoli.

Riemerge Vassalli con l’appoggio di parte della DC, ma la parte restante è sufficiente a colpirlo ed affondarlo. Questa volta in via definitiva. Forlani, ormai privo di qualunque legittimazione, si dimette anche da segretario DC.

Non resta che una soluzione istituzionale: uno dei presidenti delle Camere, quindi Spadolini o Scalfaro.

Per il secondo si spende molto Pannella, e mai si potrebbe pensare ad una più diversa accoppiata.

Gli andreottiani ricicciano dicendo che anche Giulio è istituzionale essendo in fondo il premier reggente.

Si ritorna a capo.

Sabato 23 maggio, mentre questi allestiscono il loro squallido teatrino, quei pochi italiani davanti alla tv (ed io tra loro), apprendono da un’edizione straordinaria che il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta sono rimasti vittime di un attentato mafioso sull’autostrada Punta Raisi-Palermo, all’altezza Capaci. Per esser più sicura la mafia questa volta ha fatto le cose in grande ed ha tirato giù direttamente un pezzo d’autostrada.

La notizia è stata anticipata tre giorni prima da una strana agenzia di stampa, vicina all’andreottiano dissidente Vittorio Sbardella, uno che chiamavano “lo Squalo”, per dire: “Manca ancora qualcosa di drammaticamente straordinario. Un bel botto esterno, come ai tempi di Moro, a giustificazione di un voto di emergenza”. L’agenzia è evidentemente ben informata. Andreotti capisce l’antifona alla perfezione e si ritira dalla corsa.

La sera dello stesso sabato Nino Cristofori, un altro andreottiano doc dirà al braccio destro di Occhetto, Claudio Petruccioli: “La strage è un attacco a Giulio”.

Non restano che Spadolini e Scalfaro.

De Mita, presidente della Dc ormai senza segretario, preferirebbe Spadolini: un po’ perchè solidamente anticraxiano, un po’ perché con Scalfaro non corre buon sangue dalla relazione finale della commissione d’inchiesta sull’Irpinia.

Entra in gioco il Palazzo di Giustizia di Milano: arrestato Giacomo Properzj del PRI, un signor nessuno, ma indagato anche un altro esponente repubblicano, Antonio Del Pennino, che invece ha un suo ruolo politico.

Addio Giovannone, primo presidente del consiglio non DC della Storia d’Italia.

Resta Oscar Luigi Scalfaro. Novarese, classe 1918, di origini calabresi, magistrato, padre costituente, fedelissimo di De Gasperi e Scelba, ministro dell’Interno nel governo Craxi, mai uno scandalo, mai un sospetto, di comprovata onestà personale, vedovo da pressoché da sempre, sempre accompagnato dalla devota figlia Marianna.

Tra lui e Cossiga non corre buon sangue. E così, il 25 maggio, al sedicesimo scrutinio: Scalfaro prega il vicepresidente Stefano Rodotà di prendere il suo posto. Per non annunciare la propria elezione.

E’ il nono presidente della Repubblica, eletto con 672 voti su 1002, e un’amplissima maggioranza di centrosinistra: Dc, Psi, Psdi, Pli, Pds, Verdi, Radicali, Rete.

Se la sua morale è cosa nota, il suo moralismo pure. Circolano infiniti aneddoti sulla sua refratterietà alle cose mondane.

Lo scopriremo tuttavia risoluto e laico (soprattutto) nei momenti cruciali.

Pronti via deve nominare il nuovo premier. Si consulta con Borrelli a Milano, prende nota delle inchieste su Tognoli e Pillitteri (il cognato) e chiarisce rapidamente a Craxi che non è cosa.

Nel frattempo, Martelli cerca di fregarli tutti, e di proporsi come il nuovo che avanza. La gratitudine si sa non è di questo mondo.

Ma lui prenderà la sua strada e manderà a Palazzo Chigi Giuliano Amato, che in autunno si renderà protagonista di una manovra massacrante da 93 mila miliardi di lire e del prelievo forzoso del 6 per mille sui conti bancari (nel cuore della notte, come i ladri, in effetti): l’Italia di Tangentopoli è pure sull’orlo della bancarotta.

A marzo Amato e Conso tentano il colpo di spugna su Tangentopoli, ma Scalfaro non firma e rispedisce indietro il decreto. Ad aprile, dopo il referendum che abolisce i fondi pubblici ai partiti, Amato si dimette. Mica per altro, ma ha mezzo governo indagato.

Il 26 aprile Scalfaro ha un’alzata d’ingegno e incarica un tecnico fuori dai partiti: il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi.

La mafia, del suo,, di lì a poco, torna ad attaccare con le stragi di Firenze, Milano e Roma. E in novembre Scalfaro ottiene da Conso la revoca del 41-bis a 343 mafiosi.

Nel frattempo il Presidente nello scandalo dei fondi neri del Sisde congiuntamente a tutti i ministri dell’Interno. Non fa come Leone (di cui ha ben altra caratura) va in tv e si difende: “A questo gioco al massacro io non ci sto: prima hanno provato con le bombe e ora con il più ignobile degli scandali”.

Poi scende in campo Berlusconi. Confiderà Scalfaro che “con i suoi modi mi dava un fastidio persino fisico”. Non si stenta a crederlo: papi e Scalfaro nella stessa stanza, un’immagine da brividi. Non avrà tregua per sette anni. Sempre lì, stentoreo, con la sua erre moscia, la sua retorica, i basettoni, l’aria di quello che dice il rosario.

Ma difende la Costituzione. E dove può la decenza. Davanti a Previti ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi è tranciante “Qui quel nome non passa, per senso etico”. Rifiuta le elezioni anticipate reclamate dopo la caduta per mano di Bossi. Dà vita ad un secondo governo tecnico, affidato a Dini .

Per sette anni difende il Parlamento e i giudici, osteggia D’Alema, che s’imbarca nella Bicamerale scendendo a patti con Mr. B. e infine rovescia Prodi per prenderne il posto, con la valida collaborazione di Fausto Bertinotti.

Quello a guida D’Alema è l’ultimo governo Scalfaro.

Nel 1999 quando finalmente termina quella che definirà la “spaventosa e solitaria traversata” se ne andrà senza rammarichi, e senza desideri di rielezione.

Ha fatto il suo dovere fino in fondo.

Un settennato in pillole

Il 19 luglio 1992 a Palermo, in Via D’Amelio, alle ore 17.58 il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta vengono uccisi da un’autobomba. Fuori fa caldo. Io sto passando davanti alla tv quando parte l’edizione straordinaria del tg1. Credo di non aver mai avuto così freddo in un pomeriggio d’estate

Il 26 luglio 1993 la Democrazia Cristiana, la grande Balena Bianca, il partito che dal dopoguerra ha ininterrottamente regnato sull’Italia, piegata dagli scandali decide il suo formale scioglimento per dare vita al Partito Popolare Italiano

Il 27-28 marzo 1994 lo schieramento di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi vince le elezioni sconfiggendo il centro-sinistra dei Progressisti. Come molti, la prendo con classe. E mi metto dignitosamente a piangere.

L’11 luglio 1995 militari serbobosniaci entrano nell’enclave di Srebrenica, e deportano e trucidano circa 7000 bosniaci musulmani: è il cosiddetto massacro di Srebrenica

Il 26 settembre 1996 dopo un lungo assedio i talebani conquistano Kabul. A nessuno potrebbe importare di meno. Impareremo a conoscerli

Il 9 ottobre 1997 lo scrittore, attore e regista italiano Dario Fo viene insignito del Premio Nobel per la letteratura. Un giullare sul tetto del mondo.

Il 7 agosto 1998 Le ambasciate americane di Dar es Salaam (Tanzania) e Nairobi (Kenia) sono colpite da attacchi terroristici di gruppi legati a Osama Bin Laden: 224 morti, oltre 4.500 feriti. Sentiremo ancora parlare di Al Qaeda e del suo leader

Il 1º gennaio 1999 Nasce ufficialmente l’Euro, la nuova moneta europea. Il 1º gennaio 2002 sostituirà le valute dei paesi che vi hanno aderito. Le nostre vite cambieranno.

1985 – Francesco Cossiga

E’ il giugno del 1985, e questa volta i partiti non hanno alcuna voglia di farsi la guerra.

Con una sola certezza nel cuore (mai più Pertini), si accingono all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Nella corsa al Quirinale i favoriti sono Andreotti, Forlani e il solito Fanfani.

E Francesco Cossiga, ex ministro degli Interni, dimissionario dopo il caso Moro, ex premier più amato da Pertini, attuale presidente del Senato.

Cossiga non è del tutto entusiasta della proposta. Anzitutto perchè è giovane, troppo, ha appena 56 anni, e, alla fine del settennato si troverebbe a doversi collocare a riposo. E in Italia, dopo i 60 inizia di solito l’età dell’oro.

“Sette anni là dentro, in quella prigione dorata, lassù sul Colle…”, continua a ripetere a Ciriaco De Mita, segretario del suo partito e, allora, suo amico.

In quei giorni impera un’unica certezza: sul Colle salirà un democristiano, per la ormai nota regola dell’alternanza.

Craxi siede a Palazzo Chigi, e con De Mita ha stretto un accordo (e questi che credono d’essersi inventati tutto col Nazareno). Il PCI è guidato da Alessandro Natta, brav’uomo dallo scarso appeal, e sono stati da poco asfaltati nel referendum sul punto unico di contingenza.

La parte più difficile è mettere d’accordo i soliti amici. Quelli della DC, che è gente che dietro ai sorrisi non scherza. Ma proprio per niente.

De Mita, che impera sul partito e dietro i sorrisi usa modi spicci, vuole stravincere. Ma possibilmente, per una volta, con un candidato concordato con gli altri partiti.

Infatti incontra con anticipo Natta, e gli propone Andreotti. Che cavarsi dalle palle così lo zio Giulio sarebbe un’operazione di alta scuola. Che il potere di Andreotti, e degli andreottiani, non è tanto, o solo, nelle cariche, ma nell’immenso bacino di voti gestito. E se Andreotti non può più candidarsi, beh, ecco, gli andreottiani non contano più un cazzo. Un colpo da maestro. Ma la risposta di Natta è prevedibile: “Non possiamo votarlo”. D’altronde come si poteva pensare che il PCI votasse Belzebù.

Nemmeno Forlani, piace a tutti. Allora ogni partito propone una rosa di nomi. Il Pci gradirebbe due intellettuali cattolici democratici, Giuseppe Lazzati e Leopoldo Elia. I partiti laici vorrebbero Paolo Baffi, ex governatore di Bankitalia e figura cristallina. Tre galantuomini, senza meno. Cossiga viene fuori per caso, perché presente in diverse rose, pur senza mai figurare al primo posto.

Ha buoni rapporti col Pci e pure una parentela con la famiglia Berlinguer, è un giurista di altissima fama, un politico di specchiata moralità, e non appartiene in senso stretto a nessuna corrente DC. In più pare uomo docile agli ordini di scuderia (non ridete, non vale).

Natta, ci sta subito, nonostante sia stato l’artefice delle dimissioni da premier di Cossiga nell’ambito dell’affaire Donat Cattin. Craxi per una volta è all’angolo. Se socialista dovesse essere, dovrebbe essere per forza Pertini. Per quanto è amato dalla gente. Ma a parte che Pertini cazzia i socialisti tutti i santi giorni, i suoi 88 anni lo rendono di fatto non rieleggibile (poi cadrà anche questo assioma, come noto)

Cossiga, insomma, va bene a tutti. e’ nella DC che trova le maggiori resistenza. Ma Andreotti lo appoggia, cosciente che il suo nome non passerebbe mai, lo appoggia. E convince gli altri.

Ora si tratta di convincere lui. De Mita ci riesce facendosi promettere che manterrà al Quirinale il segretario generale Maccanico, irpino come lui. E che nominerà tre senatori a vita, Elia, Malagodi e Baffi, per accontentare il Pci e i laici che li avrebbero voluti alla presidenza

Cossiga s’impegna (ma poi non li nominerà) e quando, alle il 25 giugno, le Camere si riuniscono in sessione plenaria per la prima votazione, è già tutto predisposto. Mancano all’appello solo missini, demoproletari e radicali.

L’elezione questa volta è una formalità: per la prima volta nella storia il Presidente è eletto al primo colpo. Un’ora e 52 minuti appena, il tempo dello scrutinio. Poi, quando la presidente della Camera, Nilde Jotti legge per la 566ª volta il nome di Cossiga, il quorum è raggiunto e scatta l’applauso. Il totale alla fine sarà di 752 voti.

Il discorso d’insediamento di Cossiga spicca più per l’inflessione sarda tra doppie non previste e viceversa. E’ il primo presidente a non essere un padre costituente, ha 56 anni, e ha già visto molti, ma molti casini. De Mita si incensa “È il mio capolavoro”. Chissà se era una crosta.

Classe 1928, figlo della Sassari bene ma non cattolici in senso del tutto stretto. Affini alla massoneria e vicini pure al Partito sardo d’azione di Emilio Lussu. Fa tutto presto, Francesco Cossiga. Si laurea a 20 anni. E’ docente di diritto costituzionale a 24, nel 1956, appena ventottenne si mette a guerreggiare con Antonio Segni. Questi fiuta il pericolo e decide di farselo amico, sarà deputato a 30 anni nel 1958. Nulla gli viene regalato. Semplicemente gente così esiste.

E’ sposato con tal Giuseppa Sigurani e ha un paio di figli. I secondi faranno sempre la grazia di essere inesistenti. La prima, sarà invece un bel grattacapo, per lui. Perchè viene ammannita la storia che la signora al pari della signora Pertini non ami figurare, ma si scoprirà poi che i due son separati di fatto e che quando offrono la presidenza a Cossiga, son li che stan facendo le carte per l’avvocato. Tutto rientra per lo spazio d’un settennato. Divorzieranno poi, e otterrano pure un annullamento della Sacra Rota. Il timore, tutto DC, era la reazione dell’opinione pubblica a un presidente separato. Avrebbero potuto lasciarli serenamente in pace, sarebbe fregato una mazza a nessuno.

Cossiga alle spalle ha già un percorso importante. E’ lui che si occupa di gestire l’operazione Gladio e a imbottire di omissis il Piano Solo. Dal ’76 al ’78 sarà ministro degli Interni nel governo Andreotti. Per la sinistra è Kossiga (con la k e la doppia s runica alla nazista), per Pannella il responsabile morale della morte di Giorgiana Masi. Per altri ancora il responsabile morale della morte di Moro.

A titolo assolutamente personale, gli addosserei più la morte di Giorgiana Masi, che quella di Moro. Per due ragioni, a mio vedere essenziali. Se sei Ministro dell’Interno e la Polizia carica e spara ad altezza d’uomo, tu sei corresponsabile. Sia che tu abbia dato quel tipo di direttive (probabile) sia che tu non le abbia date (meno probabile). Se sei Ministro dell’interno e rapiscono uno dei politici più in vista del Paese per ucciderlo, si dà per inteso che il rapito sapesse benissimo quali erano i rischi correlati alla sua figura. Per cui a meno che tu non abbia avuto parte attiva nel farlo ammazzare, sei stato solo sommamente sfortunato a trovarti lì.

Resta il fatto che i 55 giorni del caso Moro segnano irrimediabilmente Cossiga: lo stress, anche per le ingenerose lettere di questi dalla prigionia, il dovere della fermezza, le polemiche per le indagini. Si dimette e sparisce dalla scena per un anno. Quando ritorna è trasformato anche fisicamente. E si ritrova presidente del Consiglio dal 1979 all’80. Poi scoppia l’affaire Donat Cattin (viene accusato di aver favorito la fuga del figlio terrorista del compagno di partito). Sparisce di nuovo. E sembrerebbe un per sempre. E invece, nel 1983, riciccia e viene eletto presidente del Senato. E da lì presidente della Repubblica.

I suoi primi quattro anni di presidenza sono una palla totale: abituati al vitalissimo nonno Sandro, il Paese si trova davanti il ‘sardomuto’.

Lui passa le giornate a tagliar nastri, e a litigare qua e là con il Csm che a suo parere tende ad allargarsi troppo.

E poi? E poi crolla il muro di Berlino. E il comunismo. E l’Urss. E cambia tutto cazzo. Ma i politici italiani se ne fottono, come d’uso. D’altronde lo diceva il Gattopardo, ‘tutto deve cambiare, affinché nulla cambi’

Lui invece decide: “Voglio togliermi alcuni sassolini dalle scarpe”.

Solo che non sono sassolini, sono i monoliti di Stonehenge. Qualcuno azzarda che sia ciclotimico, ed alterni euforia e depressione. O magari ha capito che gli amici DC vogliono impattargli anche colpe non sue.

Sta di fatto che Cossiga comincia, parole sue, a “picconare”.

Contro il Csm, che vuole censurare i giudici massoni, poi vuole difendere i giudici attaccati per la prima volta da Craxi (minacciando di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli, per difendere l’organo).

Poi tuona contro il Tg1, che intervista un falso agente della Cia con le prime allusioni a Gladio, quella Gladio di cui Andreotti ha consegnato le carte al giudice veneziano Felice Casson, e Andreotti che consegna con generosità delle carte è, ammettiamolo, quanto meno sospetto.

Nel 1981, gli riesce un colpo da maestro e manda la volpe in pellicceria. Il sardomuto fotte Andreotti, nominandolo senatore a vita. E da quel preciso istante, reciso il cordone ombelicale tra il Divo ed il suo elettorato, inizierà il costante declino di Andreotti.

L’ultimo anno è un susseguirsi di esternazioni da ogni capo del mondo, ora furibonde ora beffarde, ma sempre destabilizzanti, contro tutto e contro tutti.

Immenso, nel luglio del 1991 quando si lascia ‘sfuggire’ in un’intervista al Corriere: ‘Siamo un Paese solido. Un Paese che sopporta come ministro del Bilancio un analfabeta come Paolo Cirino Pomicino, uno psichiatra di scarsa fortuna, non deve aver paura di niente’.

Però poi va fuori controllo difende Gladio ed esalta Edgardo Sogno, riabilita la P2 , vorrebbe pm subordinati al governo.

La Dc lo scarica, il Pci e Pannella chiedono l’impeachement. Qualcuno teorizza ci sia materiale per una perizia psichiatrica. Il fronte nemico gli rivolge accuse eccessive quanto le sue esternazioni: matto, golpista, fascista, depistatore di tutti i misteri d’Italia. Smesso di ululare alla luna circondato da una congrega di ladri che verrà spazzata da Tangentopoli, Cossiga si dimette il 25 aprile 1992, con un discorso commosso e commovente alla Nazione, d cui mi piace riportare un passo: ‘Ho messaggi da lanciarvi. A tutti voglio dire di avere fiducia in voi stessi. Questo è un Paese di immense energie morali, civili e religiose. Si tratta di saperle mettere assieme’

Mancano due messi alla scadenza naturale del mandato, Mario Chiesa è già in galera, e Capaci è dietro l’angolo.

Anche dopo, Cossiga continuerà le sue incursioni nella vita politica, mai domo, mai del tutto prono, sempre più concentrato su di sé, ma con punte di onestà e verità che pochi gli possono contestare. Morirà nel 2010, ultraottantenne, dopo essere sopravvissuto (politicamente) a molti suoi avversari di quegli anni. Fu un grande presidente? No. Ma migliore di molti di quelli che avrebbero voluto cacciarlo a pedate (Andreotti, Craxi, Forlani, Gava, Leoluca Orlando, Padre Pintacuda, Mancino) decisamente sì.

Un settennato in pillole

Il 23 settembre 1985 a Napoli, la camorra uccide il giornalista Giancarlo Siani.

Il 20 marzo 1986 nel carcere di Voghera, un caffè va di traverso a Michele Sindona. La ricetta l’aveva fornita Pisciotta. porta con sè una quantità di segreti.

Il 4 maggio 1987 Gary Hart, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, si ritira a causa di un affaire con la modella Donna Rice. Da noi, verrebbe considerato un peccato veniale, dal momento che i politici paiono più occupati a fottere il Paese.

Il 1° ottobre 1988 a Mosca Michail Gorbaciov assume la carica di capo del soviet supremo. Il mondo sta per cambiare.

Il 15 gennaio 1989 a Praga durante la commemorazione di Jan Palach, vengono arrestate centinaia di manifestanti. Tra essi anche Vaclav Havel, drammaturgo, fondatore del movimento per i diritti umani Carta 77.

Il 24 agosto 1989 in Polonia Solidarnosc entra in una coalizione di governo

Il 9 novembre 1989 a Berlino cade simbolicamente e fisicamente il muro che divideva la città dal 1961. E la prossima volta che sentirete Salvini parlare di Schengen ricordate ai vostri figli l’emozione di quella notte.

Il 25 dicembre 1989 in Romania, dopo violenti moti di piazza, e un processo sommario durato 55 minuti vengono uccisi il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu e la moglie Elena. Conscia del fatto che non mi faccia onore, non riesco a provare un moto di pena, oggi come allora

Il 29 dicembre 1989 Vaclav Havel diventa il primo presidente democraticamente eletto della Repubblica Ceca

Comunque sia andata, comunque vada, comunque andrà, l’aver vissuto quei giorni è qualcosa che la vita non potrà mai toglierci.

Il 22 novembre 1990 Margaret Thatcher (una delle personalità pù sopravvalutate in assoluto) rassegna le proprie dimissioni. Il periodo fortunato continua.

Dopo un susseguirsi di eventi il 29 dicembre 1991 quel che resta dell’URSS si scioglie per confluire nella comunità di stati indipendenti. Nel generale giubilo, nessuno si rende conto che loro non sanno gestire la democrazia, e noi non abbiamo gli strumenti geopolitici e culturali per gestire quel che ne deriva. A partire da quel momento, non lo sappiamo ancora, ma saranno cazzi. Amari.

il 12 marzo 1992 a Palermo viene ucciso il luogotenente andreottiano in Sicilia, Salvo Lima. Le allusioni si sprecano. Le trasmissioni televisive, pure. Nessuno sa che, in realtà, son solo i prodromi della tragedia che sarà

1978 – Sandro Pertini

L’Italia che lascia Giovanni Leone al momento delle sue dimissioni, nel giugno del 1978, è un Paese in ginocchio. Il sequestro Moro, con l’epilogo noto a tutti, ha segnato una linea di demarcazione, comunque lo si voglia leggere.

I grandi scandali, il nervosismo made in Nato per l’avvicinarsi dei comunisti al governo, il terrorismo dilagante nelle strade, la paura, palpabile, trovarono il loro culmine nella strage di via Fani e nel conseguente sequestro di Moro.

I partiti si spaccano, e la spaccatura non è più un problema di aree politiche, e di giochetti sottobanco, ma tra il fronte della fermezza e quello della trattativa.

Al primo aderiscono, su tutti, DC e PCI, e infatti la Renault rossa, col corpo di Moro nel bagagliaio, verrà ritrovata parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, sempiterna accusa ai due partiti.

Aggiungono sale sulle ferite le lettere di Moro stesso dalla prigionia, e le accuse lanciate all’indirizzo del proprio partito, ma non solo.

La morte di Moro, che sarebbe stato il candidato naturale al Quirinale, seguita dalle drammatiche dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, è del 9 maggio. Leone, travolto dagli scandali, dal malcontento, e dalla sua fondamentale incapacità di porsi rispetto agli eventi, si dimette il 15 giugno.

Per la sua successione sono in corsa il segretario Dc, Benigno Zaccagnini, il segretario repubblicano La Malfa, ed i socialisti appartenenti all’ala sinistra del partito Francesco De Martino e Antonio Giolitti. I primi due giungono direttamente dal fronte della fermezza (segreteria DC, PCI, PRI, PLI, PSDI e MSI), e gli altri due da quello della trattativa, che ruotava intorno al PSI di Bettino Craxi e comprendeva alcune altre personalità sparse (su tutti, Fanfani, Saragat, Pannella). Una notazione, che vedremo sarà di non poco conto, in dissenso con la linea socialista, non aderiva alla linea della trattativa un anziano socialista ligure, Sandro Pertini, classe 1896, eroe della resistenza, padre costituente, ormai da tempi immemori ai margini politicamente, nonostante la presidenza della Camera dal 1968 al 1976.

Non è fondamentale, nei giorni del sequestro Moro, ma teniamone conto, che ci servirà più in là.

Inizia il solito teatrino.

Nei primi tre scrutini, quelli che richiedono la maggioranza dei due terzi delle Camere, ciascun partito vota il proprio candidato di bandiera. Sta volgendo la fine di giugno, la maggioranza da qualificata passa ad essere assoluta (il 50%+1 dell’assemblea) ma per ben 12 volte la situazione non si sblocca.

A Craxi, in fondo, basta che non salga al Quirinale l’odiato La Malfa, e che si mantenga l’usanza dell’alternanza (un cattolico – un laico) istituitasi con l’elezione Saragat.

Pertanto Craxi, col garbo che lo contraddistingue, alza la voce con Zaccagnini mettendolo di fronte ad un aut-aut. O la DC appoggia l’ascesa di Giolitti al Quirinale, o il PSI lascia il governo Andreotti al suo destino. Ma la DC tiene duro su Zaccagnini , e il PRI non molla La Malfa.

Il quale La Malfa, come poi Pertini, finge disinteresse per la carica, ma ci tiene, e parecchio.

I comunisti dal canto loro, hanno una certezza. Vogliono senz’altro un laico, e vogliono, laddove possibile, che sia un personaggio lontano da Craxi e dal craxismo. Che Berlinguer, Craxi, lo detesta proprio (lo chiama usualmente il gangster).

E a sorpresa comincia a circolare il nome dell’ottantaduenne Sandro Pertini. Ha il peso politico di una mosca, ed è, più che altro, una vecchia gloria della resistenza. Può andar bene, al massimo, per un ruolo istituzionale ed onorifico come la Presidenza della Camera. Per il resto, i compagni socialisti, ben contenti sono che resti sul suo piedistallo di monumento.

Anche questa candidatura nasce, in fondo, come fumo negli occhi. E sono molti a pensare che, dopo un paio di tornate, il vegliardo possa ritirarsi in buon ordine.

Non hanno fatto i conti con il carattere dell’uomo, ma soprattutto non sanno che la carriera politica di Alessandro Pertini, nato a Stella (SV) ottantadue anni prima, sta per iniziare proprio adesso. Pertini ha due cose che lo rendono inviso a Craxi ed amato dai comunisti. Anzitutto predica il ritorno all’unitarietà della sinistra (una cosa che demolirebbe il potere craxiano) e poi, ha il pallino della ‘questione morale’, non diversamente da Berlinguer. Nel 1974, da presidente della Camera, rifiutò di firmare l’aumento dell’indennità dei deputati, e fu anche assai vicino ai pretori d’assalto durante l’affaire dello scandalo petroli.

Non foss’altro che per questo, sia Craxi che la DC hanno forti perplessità. Così il 2 luglio, per cavarselo finalmente dai piedi, Craxi lo lancia come candidato unitario della sinistra tutta. Ma Pertini, privo del reale appoggio di un partito politico, annusa l’aria, e con una mossa geniale (lui che non è affatto politico navigato, ma è comunque più astuto di quanto lo si faccia) chiederà, furibondo, di non essere votato.

Tutti lo credono fuori dai giochi, invece lui comincia a tessere la sua tela e a riallacciare antichi rapporti con Amendola, Natta, lo stesso La Malfa.

Nel frattempo le votazioni proseguono, tramonta Giolitti, e pare prendere corpo l’ipotesi La Malfa. Craxi, piuttosto, incendierebbe Montecitorio con tutto il suo contenuto umano, Andreotti, lucidamente, comprende che i giochi son comunque fatti e prima di far eleggere Pertini dalle sole sinistre, convince la DC a far buon viso a cattivo gioco ed accodarsi.

Pertini, sempre con l’aria di quello che non ci tiene, dirà: “Quando mi hanno offerto la presidenza della Repubblica, a 82 anni, io sono diventato pallido come un morto. Questi miei giovani compagni del Psi, invece, quando gli offrono una carica se la prendono senza batter ciglio. Comunque son sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti”.

La sua sfrontatezza è pari solo alla simpatia, perchè, in realtà, quando lo eleggono, ha già pronto il discorso di investitura.

Discorso che si rivelerà un mix di antifascismo, resistenza e questione morale, un ricordo di Moro (però lui fu per la fermezza), un po’ di riconoscenza pure a Leone. Tutti plaudenti. Ma Pertini, all’uscita miaccerà bonariamente: “Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perché cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”.

La sua simpatia e la sua umanità quelle davvero mai false, lo proteggeranno da critiche che avrebbero fatto a pezzi chiunque altro.

Che Pertini, fuori dal santino del presidente con la pipa, è, con rispetto parlando, un rompicoglioni di prima categoria, e travalica un giorno sì e l’altro pure il suo mandato costituzionale.

Gli agiografi, ma anche molta stampa dell’epoca, sorvoleranno sui plurimi strappi alla Costituzione che saranno la base di quel presidenzialismo strisciante a base di “esternazioni” a ruota libera, poi ampiamente sviluppato e istituzionalizzato da Cossiga, Scalfaro e Napolitano.

Di onestà unanimemente riconosciuta, la sua immagine rigorosa ma pur sempre bonaria è quel che ci vuole per riportare dignità ad una carica uscita distrutta dalla presidenza Leone (col senno di poi anche al di là dei demeriti di Leone e famiglia). Mai sfiorato da scandali, si distinguerà per essere il primo presidente a conferire mandato e nomina ai primi due governi non a guida DC: prima quello di Giovanni Spadolini, poi quello di Craxi (che pure Pertini non ama affatto). In più Pertini, non tiene famiglia.

Sposato con una psicologa, Carla Voltolina, diretta ed intelligente, ma abbastanza bizzarra e senz’altro refrattaria all’esposizione mediatica, non alloggerà mai al Quirinale, utilizzandolo solamente da ufficio.

D’altronde, quanto a presenzialismo, basta lui per tutti, bacia bambini, abbraccia madri e nonne, piange ai funerali, e pur di essere a favor di telecamera non si cruccia di intralciare i soccorsi: dal pozzo di Vermicino al terremoto in Irpinia, Sandro Pertini, il nonno degli Italiani, c’è. E pazienza se la scorta intralcia ambulanze e quant’altro.

Eppure, la gente comune, fatto raro in un Paese atavicamente diffidente come l’Italia, gli crede. Perchè Pertini, che non si fa problemi a dire pane al pane, vino al vino e cretino al cretino, dà l’impressione di credere nelle cose che dice. Poi, perchè, anche quando piange, non sembra farlo a comando. Ed è capace di gesti spontanei. Al Bernabeu, durante la finale dei Mondiali, mentre agita l’inseparabile pipa. Ma anche a Padova, quando va a riportare a casa il compagno Enrico, che s’è accasciato dopo un comizio. E sarà a piazza San Giovanni, il 13 giugno 1984, mentre un milione di persone danno l’addio al sogno di un comunismo diverso.

Nel frattempo, eletto Wojtyla, comprende come anche lì ci possa essere uno spazio da riempire e il vecchio compagno socialista ed ateo fraternizza con lui come se fosse il parroco sotto casa.

Ogni tanto ha delle uscite da delirio. Memorabile quando interruppe un viaggio ufficiale in Sudamerica per andare a lacrimare sulla bara del presidente sovietico Cernenko, che, per dirla, non è che fosse un amico e men che meno un campione di democrazia. A voler essere maligni, probabilmente seguì il cambio di rotta di fotografi e giornalisti.

Egocentrico, estroverso, collerico, intollerante verso qualunque cenno di dissenso, Pertini si affaccia informale in televisione nei giorni pari e quando può pure in quelli dispari.

Non si contano gli esecutivi italiani ferocemente incazzati dopo qualche uscita. Un giorno il povero Maccanico, suo segretario generale, ormai alla disperazione, lo chiama a Selva di Val Gardena dov’è in vacanza: “Forse, Presidente, se mi posso permettere, troppe interviste potrebbero danneggiarla”. dall’altro capo del filo il pacifico vegliardo lo investe come un tir: “Io parlo con chi voglio, di cosa voglio, quante volte voglio!”.

Nel 1985, a fine settennato, i partiti ormai al limite della sopportazione respingono al mittente ogni avance dell’arzillo ottantottenne che preme per una riconferma. Piuttosto richiamerebbero Umberto II da Cascais.

E votano in massa per Francesco Cossiga. Il mite, taciturno, riservato sardo. Uno che chiamano il sardomuto. Ma le apparenze, si sa, ingannano.

Un settennato in pillole

il 9 maggio 1978, dentro il bagagliaio di una Renault rossa, viene ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro.

Il 30 giugno 1979 a Torino si svolge la prima giornata dell’orgoglio omosessuale in Italia. Partecipano 5000 persone. La svolta è epocale. E in un lungo percorsa, non ancora terminato, l’Italia impara che quel che una volta poteva essere solo sussurrato può essere anche mostrato in pubblico

il 27 giugno 1980 un DC 9 dell’Itavia in volo tra Bologna e Palermo scompare dai radar 40 miglia nautiche a Nord di Ustica. 81 morti. 35 anni dopo, non si è ancora riusciti ad appurare non tanto le responsabilità, ma nemmeno cosa sia realmente accaduto. Uno dei molti misteri d’Italia.

il 13 giugno 1981 dopo tre giorni di disperati tentativi di soccorso, a Vermicino muore il piccolo Alfredino Rampi, caduto in un pozzo profondo 80 metri. La RAI seguì in diretta le ultime 18 ore. Nasce la tv del dolore.

Nel mese di dicembre del 1982, l’editore Edilio Rusconi che aveva unificato 18 piccole emittenti private per creare una rete a diffusione nazionale a nome Italia 1, vende quest’ultima a Silvio Berlusconi per 35 miliardi di lire. Italia 1, che dal 1981, con un escamotage trasmette il segnale di Canale 5 sull’intero territorio nazionale. Noi non lo sappiamo, ma la nostra vita sta per cambiare. Irrimediabilmente.

Il 17 giugno 1983, nell’ambito di una più ampia operazione contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, viene arrestato il sin lì notissimo presentatore televisivo Enzo Tortora. Ne uscirà assolto (e distrutto) tre anni dopo. LA sua storia diventerà emblematica della mala giustizia in Italia

Il 10 maggio 1984 Pietro Longo, segretario del PSDI e ministro del Bilancio, rassegna le dimissioni perché tra gli iscritti nelle liste della Loggia P2. In realtà la P2 è ovunque, in ogni organo dello Stato.

Il 7 ottobre 1985 la nave da crociera Achille Lauro viene sequestrata da un commando guerrigliero palestinese

L’8 ottobre i dirottatori palestinesi uccidono Leon Klinghoffer, cittadino statunitense di origine ebraica; gli altri ostaggi sono liberati grazie alla mediazione dell’OLP e in cambio di un aereo con cui fuggire

Il 10 ottobre i caccia F-14 Tomcat della Marina degli Stati Uniti intercettano l’aereo egiziano che trasporta i dirottatori della Achille Lauro e lo costringono ad atterrare nella base NATO di Sigonella, in Sicilia dove le autorità italiane prendono in consegna i prigionieri contro la volontà USA e impongono all’aereo di raggiungere Belgrado. Non stiamo a dire quanto si incazzano gli Americani. Craxi però di più, e alla fine vince il braccio di ferro. Ma soprattutto, per una volta, salverà la faccia.

1971 – Giovanni Leone

E’ Natale, e siamo tutti più buoni. I nonni raccontano le fiabe sotto l’albero, e i bimbi attendono l’arrivo del Bambin Gesù coi suoi doni (che il ciccione vestito di rosso ce lo importerà qualche anno più in là Coca Cola, insieme ad alcune campagne pubblicitarie memorabili).

Sono tutti più buoni, tranne qualcuno.

Non è più buono Ugo La Malfa, segretario PRI, che, nell’imminenza dell’elezione quirinalizia, ha un solo obiettivo ‘Romperò i garretti ai due cavalli di razza’ (riferendosi all’accoppiata Fanfani-Moro). Obiettivo, dichiarato, impallinare i candidati DC.

Non è più buono Giuseppe Saragat, giacché, nei sette anni trascorsi al Quirinale, Pinot Barbera ci ha preso gusto e gradirebbe una riconferma.

Non sono più buoni gli amici della DC che vogliono, tutti, salire sul Colle. Ma lì c’è posto per uno solo. Fanfani, Moro e Leone s’abbracciano in pubblico per pugnalarsi alle spalle in privato, come da miglior tradizione della ditta.

L’ala destra, capeggiata dai dorotei più l’inossidabile Andreotti, che come noto non è né destro né sinistro (cioè sì, è sinistro, ma non in quel senso lì) ma interessato al potere, punta su Giovanni Leone.

Al centro i fanfaniani puntano sul Fanfani medesimo, che ci tiene tanto, ma tanto proprio. come vedremo.

A sinistra (sì lo so, la sinistra è un’altra cosa) i morotei e De Mita puntano compatti su Moro.

In mezzo a tutti, il segretario, un fanfaniano che impareremo a conoscere bene nel corso degli, Arnaldo Forlani, non sa bene che pesci pigliare. Comunque vada sarà un gran casino, considerando che alle ultime amministrative la DC ha lasciato un 7% nelle mani dei missini. E quindi è da evitarsi come la peste un candidato sinistro, ma purtuttavia un candidato destro provocherebbe reazione uguale e contraria portando voti alle sinistre. E da qualunque parte la sia guardi c’è odore di débacle

I partiti alleati tradizionali della DC, come un sol uomo concordi, son d’accordo su una sola cosa: accapigliarsi.

Si inizia a votare il 9 dicembre e, da come si presentano le cose, c’è il rischio di un altro Natale a Montecitorio.

Alla fine la DC cerca di trovare una convergenza, ed esce il nome di Fanfani. Ma l’Amintore non sta messo benissimo neppure lui. E’ appena uscito da una battaglia rovinosamente persa. Il 1° dicembre 1970, con un colpo di mano che lascia sgomenti DC e Vaticano (ma pure iL MSI, che però è meno centrale), PCI, PSI, PSDI, PSIUP, PRI e PLI (cioè pure i liberali, povero Paolo VI) ratificano l’ovvio, e cioè che l’amore è eterno finchè dura, e approvano compatti la legge Fortuna-Baslini che introduce il divorzio nell’ordinamento giuridico italiano. Il Vaticano è sgomento, gli Italiani tirano un sospiro di solievo e molte famiglie riescono finalmente a sistemare soluzioni fin lì gestite in modo sgangherato.

Insomma, non un gran periodo, per uno come l’Amintore, abituato ad essere un vincente.

Alla prima votazione la prima certezza. Gli ‘amici’ appoggiano Fanfani, ma ne manca sempre qualcuno all’appello e lui  388 voti, contro i 397 del socialista Francesco De Martino, votato compattamente dal fronte social-comunista.

I socialisti, col segretario Giacomo Mancini, non mollano, nonostante un certo Bettino Craxi, astro nascente del partito si stia dando da fare, di nascosto, per Moro. Ma La Malfa, vuole a tutti i costi un laico, o, al massimo un cattolico di complemento.

Il PLI punta su Malagodi, il segretario, mentre il PSDI porta avanti il vessillo saragattiano, che il presidente uscente ci terrebbe proprio.

A Fanfani occorrono undici scrutini per capire che non è cosa, anche se, se avesse prestato attenzione, se ne sarebbe già reso conto ben prima, quando su una scheda mano ignota depositò nella grande urna una rima baciata: “Maledetto nanetto/non verrai mai eletto”. E poi dicono gli amici.

Dal caravanserraglio dei veti incrociati, esce un trio eterogeneo: Leone, Rumor o Paolo Emilio Taviani. Rumor e Taviani non ci pensano neppure. E allora, il 24 dicembre 1971, alla ventitreesima votazione, con 518 voti tra cui quelli, determinanti per il raggiungimento del quorum dei missini, Giovanni Leone doventa il 6° Presidente della Repubblica Italiana.

Napoletanto, sessantatré anni, il più giovane dei presidenti sino a quel momento, brillantissimo docente universitario, finissimo giurista, principe del foro, padre Costituente, presidente della Camera, due volte presidente del Consiglio, Leone reca con sé la fama di uomo super partes.

Per contro, lasciano un po’ interdetti una certa qual esuberanza, una ostentata napoletanità (con O’ Sole mio cantata a squarciagola anche nelle occasioni ufficiali) e una famiglia che costituirà il suo tallone d’Achille e farà rimpiangere d’un colpo il mite Einaudi, il donnaiolo Gronchi, l’austero Segni, e il vedovo Saragat. Di Donna Vittoria e dei figli, Mauro, Giancarlo e Paolo (detti ‘i monelli’) parleremo però più in là.

L’Italia sta attraversando il suo momento più difficile. Quando si presenta in aula per giurare viene accolto da un lancio di monetine. In realtà il discorso di insediamento, a parte la prosa pedante e pesante caratteristica dell’uomo, è equilibrato ed istituzionale.

E’ stato, senz’altro il Presidente più discusso della Repubblica. Ma attraversò anni onestamente non facili. Li citeremo nel settennato in pillole, ma non si può prescindere, nel giudicarlo, dal tener conto dell’uscita dal serpente monetario (1973), referendum sul divorzio, strage di Brescia, strage dell’Italicus (1974) ripetute cadute di governi e scioglimenti delle camere. Una fortissima crisi economica.

Prono ai voleri della DC, diventa rapidamente inviso a tutti gli altri. Di suo ci mette frequentazioni che non dovrebbero essere quelle di un presidente. E una famiglia davvero troppo disinvolta.

A questo punto, dovrebbe partire la crocifissione della famiglia Leone. Vi deluderò. C’era una donna molto bella, molto giovane (molto più giovane del marito) colta, brillante e disinvolta. Quando entra al Quirinale, ha 43 anni (venti meno del marito, ma è cosa non inusuale in quel periodo) e nessuna attitudine alla comprimarietà. Le piaccioni i begli abiti e le belle cose, e si illude di poter essere la nuova Jacqueline Kennedy. Ha sbagliato tutto. Quello era (ed in parte é ancora) un paese bigotto, conservatore.

Una donna così, in un Paese che in quegli anni fonda ancora la condizione femminile sul detto veneto ma estensibile all’intera penisola (che sia bela, che sia brava, che staga en casa e che tasa), non può che avere dei guai, e procurarne a chi le sta intorno. Stupisce che una donna intelligente non cogliesse questa sfumatura, ma la vanità distorce, spesso, la realtà.

Stupisce ancor di più che il marito, uomo altrimenti accorto, non glielo abbia fatto notare. Ma vien da aggiungere che Giovanni Leone fu, dei presidenti, quello con l’ego più ipertrofico (con Cossiga).

Quanto alla prole, prendete tre ragazzi ventenni, con due genitori dall’ego ipertrofico e metteteli sotto i riflettori del composto mondo quirinalizio. Mettete quei tre ragazzi ventenni con dei genitori cui la stampa non perdona nulla sotto i riflettori e li faranno a pezzi. E non è una giustificazione. Ma vorrei sapere se qualcuno sia mai andato ad indagare sugli affari in corso d’opera dei figli (ben più grandi) dei presidenti venuti prima e dopo. E mi domando se vengano creati più danni con gli intrallazzi o correndo dietro a qualche soubrette. Ripeto non sono assolutoria, e quelle persone non sono il mio genere, ma trovo che siano stati usati spesso due pesi e due misure.

In una situazione del genere, con un Presidente che a livello comportamentale lasciava a desiderare (le corna a Pisa, agli studenti che lo contestano, le corna a Napoli, tra i malati di colera), il gioco fu facile nel coinvolgerlo in una serie di scandali, su tutti i il caso Lockheed, col Presidente sospettato di essere l’Antelope Cobbler, ma anche i nepotismi, le amicizie chiacchierate col finanziere Rovelli e con lo scià di Persia.

Una violentissima campagna di stampa, condotta da L’espresso e da Camilla Cederna, ma anche da OP di Pecorelli e dai Radicali di Pannella e Bonino, lo mettono alle strette e sotto l’occhio continuo dei riflettori.

Ne uscirà, anni dopo completamente scagionato, e Pannella e Bonino (due gran signori comunque la si pensi) si scuseranno pubblicamente.

Lo scaricano tutti, e su tutti, il suo partito. Quello stesso partito che l’aveva invitato a non querelare sulla base della libertà di stampa, usa quelle accuse per farlo dimettere, mentre il PCI chiede le sue dimissioni, e La Malfa s’accoda.

La DC lo molla e Zaccagnini, con l’onnipresente Andreotti, vero playmaker di quegli anni, lo invitano con cortese fermezza alle dimissioni. Lui in realtà ha già pronto il discorso di commiato e si libera dei due messaggeri con signorile finezza: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mondiali di calcio in santa pace”.

Queste righe non sono di difesa di quello che fu in realtà un pessimo presidente, sostanzialmente inadeguato al ruolo e alle sfide. Ma che fosse inadeguato, al ruolo e alle sfide, lo diceva pure il suo passato, di conservatore tenace inadeguato a confrontarsi con un’Italia che stava cambiando velocemente e radicalizzandosi nelle lotte.

Si può dire tutto il peggio, di Giovanni Leone, ma fu crocifisso, e con lui la sua famiglia per le ragioni sbagliate.

Un settennato in pillole

Il 22 dicembre 1971, l’Onu elegge a proprio segretario generale l’asutriaco Kurt Waldheim. Ex combattente Wehrmacht, accusato di crimini nazisti (sebbene mai condannato). Diventerà anche Presidente dell’Austria. Quando ad essere inopportuni non siamo solo noi.

Il 17 maggio 1972 viene assassinato a Milano, il commissario Luigi Calabresi. Sono anni bui, e lo saranno sempre di più

L’11 settembre 1973 in Cile un colpo di stato ordito dal generale Augusto Pinochet, depone il democraticamente eletto socialista Salvador Allende che si suicida (o viene suicidato) nelle fasi finali del colpo di stato, dando il via ad una delle dittature più schifose della storia sudamericana (che pure di storie marce ne ha da raccontare)

Il 25 aprile 1974 un gruppo di militari depone Caetano ponendo fine alla dittatura salazarista in Portogallo, mentre il 23 luglio 1974 cade in Grecia quella dei Colonnelli. Resiste per il momento Francisco Franco.

Il 20 novembre 1975 muore nel suo letto Francisco Franco, l’ultimo dittatore dell’Europa occidentale. Sale al trono Juan Carlos de Borbon y Borbon. Dovrebbe essere il paladino della dittatura. Traghetterà invece il Paese verso una compiutissima democrazia.

Il 1° settembre 1976 le Brigate Rosse uccidono a Biella il vicequestore Francesco Cusano. non è il primo delitto ad esse ascritto. Ma segna l’inizio degli Anni di Piombo.

Il 12 maggio 1977 a Roma il Partito Radicale organizza un sit-in Piazza Navona per celebrare l’anniversario del referendum sul divorzio del 1974. Il Ministro dell’Interno Cossiga dopo la morte dell’agente Passamonti impone il divieto di manifestare. La polizia interviene sparando colpi di pistola: sul Ponte Garibaldi muore la studentessa Giorgiana Masi. Le polemiche saranno moltissime. La polizia sparò ad altezza d’uomo.

Il 22 maggio 1978 è approvata la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge n. 194/78) con cui l’aborto è consentito entro 90 giorni dal concepimento; in seguito è ammesso solo in caso di pericolo per la vita della madre o di gravi anomalie del nascituro. Se ne discute ancor oggi. E resta ancor oggi un baluardo della società civile. Perchè il punto non è condividere una posizione, ma sapere che le convinzioni di ciascuno finiscono là dove iniziano i diritti di un altro.

1964 – Giuseppe Saragat

Sul finire dell’anno 1964, si decide infine che dopo mesi di ‘sensorio vigile’ (la fantasiosa formula medica architettata per evitare la presa d’atto dell’ovvio e le immediate dimissioni di Segni) fossero maturi i tempi per procedere all’elezione di un nuovo Capo dello Stato.

Le dimissioni arrivano, ufficialmente, il 6 dicembre. Candidato ufficiale della Democrazia Cristiana è il presidente della Camera Giovanni Leone, che la spunta su Fanfani, Scelba e Giulio Pastore, primo ed assai potente segretario della CISL fino al 1958.

Socialisti, repubblicani e socialdemocratici ripropongono, come due anni prima, il fondatore del PSDI, Giuseppe Saragat. Sessantasette anni, torinese, vedovo, di ascendenze sarde, socialista di ala turatiana e riformista sin dal 1922, esiliato in Svizzera, Austria e Francia negli anni del fascismo, nel 1943 al rientro, viene arrestato dai Nazisti, Presidente della Costituente nel 1946, dissentendo dalla deriva comunista presa dai socialisti nel dopoguerra nel 1947 dà luogo alla scissione del PSI a Palazzo Barberini, di fatto appoggiando l’adesione dell’Italia alla NATO e al Piano Marshall, e guadagnandosi l’imperituro odio di molta parte del PCI.

Ma alla fine del 1964, quasi vent’anni dopo, l’ala riformista del PCI, cui fa capo Amendola, sarebbe anche disposta a votare Saragat, mentre la sinistra che fa capo ad Ingrao preferirebbe Fanfani, che pare più in sintonia con loro sul modo di interpretare il centrosinistra.

Così stanno le cose all’inizio delle votazione. Il 16 dicembre.

I primi quindici scrutini trascorrono con un nulla di fatto. Tra discese ardite e risalite, Leone va su e giù, come sulle montagne russe, ma non raggiunge mai il quorum. Impallinato da franchi tiratori raramente così attivi.

E i franchi tiratori, precisiamolo, son tutti ‘amici’. Sì, amici, come di chiamavano tra loro i democristiani in contrappposizione ai compagni del PCI. Dice l’antica saggezza popolare ‘dai nemici mi guardo io dagli amici mi guardi Dio’. Leone, furbo napoletano superstizioso di certo già l’immaginava, ma ne avrà la prova provata.

La regia delle 15 votazioni vede la firma, a volte alternata, e a volte congiunta del solito Fanfani, di Ciriaco De Mita e di Carlo Donat Cattin.

Ad un certo punto, per cercare di sbloccare la situazione scende in campo Paolo VI con una lettera inviata dal Direttore dell’Osservatore Romano, Manzini, al buon Fanfani: ‘Quassù si desidera vivamente un rinuncia per il bene maggiore’

Paolo VI non è nuovo a queste uscite. Due anni prima, ancora Cardinal Montini, fu una sua telefonata a sbloccare le votazioni in favore dell’amico Segni.

Ma i democristiani, in realtà, il Vaticano l’ascoltano solo quando interessa a loro, e la lettera si rivela un buco nell’acqua. La risposta arriva a stretto giro alla votazione successiva, quando tre anonimi fanfaniani scrivono sulla scheda il nome di Ludovico Montini, fratello del Papa e senatore Dc. Mentre gli altri votano scheda bianca.

Leone, avendone a questo punto legittimamente piene le palle, si ritira. È il 24 dicembre.

Per la prima volta nella sua storia, il Parlamento italiano aprirà i battenti anche il giorno di Natale. Fosse adesso, va detto, pur di essere a casa a tagliare il panettone voterebbero anche uno dei comessi di Montecitorio.

In piazza Montecitorio la folla scalpita: qualche buontempone ha messo in giro la voce che il gettone di presenza sia di 50 mila lire al giorno. Non è vero, ma tutti ci credono.

La DC non ha un nuovo candidato da sostenere e quindi decidono finalmente unanimi per l’astensione. Nella notte, all’ennesima riunione di partito, c’è uno scontro frontale tra le forze fedeli a Fanfani e Donat Cattin, che sarebbero disponibili ad un accordo con le sinistre, e la destra di Scelba ed Andreotti, contraria ad ogni accordo. Partoriscono un fumoso comunicato in perfetto stile doroteo, da cui si evince che voterebbero pure Saragat, ma non lo nominano mai. L’indomani, comunque, ennesima votazione a vuoto. E anche il compatto fronte pro-Saragat comincia a perdere i pezzi, e molti socialisti si uniscono al PCI per votare Nenni, come sarebbe, permettemi, anche logico. Saragat, che non è stupido, si ritira provvidenzialmente. Per ripresentarsi l’indomani.

Il segretario del Psdi Mario Tanassi (sì, c’è stata un’epoca in questo Paese, in cui anche un Tanassi contava qualcosa, quindi consolatevi, non solo questi son tempi bui)  va a chiedere i voti del PCI. Luigi Longo dice di sì, a patto di un appello pubblico ed esplicito, e come dargli torto. Sembra fatta, perché Saragat ha già in tasca i voti del PSI, dopo un incontro strappacore con Nenni. Però c’è ancora un però. Deve stare attento a non far incazzare la Dc moderata. Così s’inventa una dichiarazione che pare scritta da Aldo Moro: “Ho posto per la seconda volta la mia candidatura a presidente della Repubblica e mi auguro che sul mio nome vi sia la confluenza dei voti di tutti i partiti democratici e antifascisti”.

Ora. Sull’antifascisti, nessun dubbio, lo son tutti tranne i missini, che non lo voteranno (anche se Scelba e antifascista nella stessa frase è un discreto ossimoro). Ma democratici? Democratici è l’uovo di colombo (non Emilio e neppure Vittorino). I comunisti si sentono democratici, i democristiani non li considerano tali, Longo e Rumor, i segretari, son contenti così e il 28 dicembre con 646 voti, Giuseppe Saragat diventa il quinto presidente della Repubblica Italiana.

E’ il presidente di tutti, tranne missini, liberali e il solito gruppetto di franchi tiratori.

Vedovo, gli farà da First lady, all’occorrenza, la figlia Ernestina, di cui qui si approfitta per dire un gran bene. Discreta, presente all’occorrenza, sposata e madre, non imporrà la sua famiglia al mondo. E né lei, né il marito verranno ricordati come intrallazzatori. peraltro non si contano eredi Saragat nelle folte schiere degli italici ‘figli di’. Se c’è merito occorre dar merito.

Fa un un onesto discorso di insediamento, e sarà un fedele alleato dell’Alleanza Atlantica, anche se non mancherà di far notare al Presidente Lyndon Johnson che sarebbe ora di chiudere la guerra in Vietnam, facendo incazzare la Casa Bianca.

Con equilibrio attraverserà un settennato non facile, col Sessantotto, gli scontri di piazza, le prime bombe e l’inizio della strategia della tensione. S’aggiunga una sostanziale instabilità politica, con Moro ormai sempre più rassegnato ad un tandem col PCI.

Personaggio schietto e genuino, sopporterà con fastidio le battute sulla sua inclinazione per gli alcolici.

Narra la leggenda, che dopo il passaggio di Pinot* Barbera, le cantine quirinalizie risultarono ben più snelle.

Terminerà il settennato il 29 dicembre del 1971, con la speranza di essere rieletto, e mentre l’Italia va verso gli anni più duri della sua storia

* Per i non piemontesi, Pinot, in piemontese, è l’equivalente di Peppino al Sud, Bepi nel Nord Est, e Beppe o Peppe, un po’ ovunque. Se ci aggiungete il fatto che il Pinot è pure un vino, il gioco di parole è servito.

Un settennato in pillole

Il 25 agosto 1964 a Roma hanno luogo i funerali di Palmiro Togliatti. In piazza San Giovanni si raccolgono più di un milione di persone. Il nuovo segretario comunista è Luigi Longo

Nel settembre 1965 a Parigi, il Presidente Charles de Gaulle annuncia l’uscita della Francia dalla NATO, indicando che può esistere, anche, un’altra via

Il 4 novembre 1966 a Firenze, straripa l’Arno. Le vittime saranno 35. I danni immensi. L’Italia si scopre essere un Paese, e da ogni dove giungono volontari per portare soccorsi, dimostrando, una volta ancora che il problema dell’Italia non è l’emergenza, ma la quotidianità

Il 9 ottobre 1967  a La Higuera, Colombia, ferito in un’imboscata viene assassinato dalle forze governative, viene assassinato Esrnesto Guevara de la Serna. Che Guevara, invece, vive ancora, in ogni angolo di quell’America Latina le cui vene aperte gridano, ogni giorno vendetta.

Nel 1968 succede di tutto. Il mondo è in fiamme, nuove idee si affacciano. E’ chiaro a chiunque che un nuovo mondo è alle porte, comunque vada. Se ne avvede anche Paolo VI che il 25 luglio rende pubblica l’enciclica Humanae Vitae, in cui si condanna ogni forma di contraccezione con metodi artificiali, e si ribadisce quale legittima la sola sessualità coniugale a fini procreativi.

Il 12 dicembre 1969 a Milano, presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, esplode una bomba. Il bilancio è di 17 morti e 88 feriti. Nell’arco di un’ora scoppiano (o vengono fatte brillare) altre quattro bombe tra Roma e Milano. Gli anni bui sono cominciati, e l’Italia non sarà più la stessa.

Il 15 dicembre 1969, sempre a Milano, viene accusato della strage l’anarchico Pietro Valpreda, uscirà da questa storia del tutto assolto nel 1979. Contemporaneamente, in questura a Milano, l’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato per le stesse ragioni, cade ‘accidentalmente’ dal 4° piano. Non fate illazioni. Voleva solo imparare a volare.

Il 7 dicembre 1970, a Roma fallisce il golpe Borghese, messo in atto dal Principe Junio Valerio Borghese, esponente dell’estrema destra eversiva

Il 10 marzo 1971 la Corte Costituzionale abroga l’articolo 553 del Codice Penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali. Avere un figlio diventa una scelta, e non più un obbligo sociale, almeno sulla carta.

1962 – Antonio Segni

Lui vorrebbe tanto restare, son tutti gli altri che non lo vogliono più, e così sul volgere di aprile, correndo l’anno 1962, Giovanni Gronchi si vede costretto a fare i bagagli.

Prende il via la quarta elezione quirinalizia. Son finiti i tempi dei galantuomini. Son dipartiti De Gasperi, ed anche De Nicola. E nell’ottobre del 1961 anche quel gran signore di Luigi Einaudi. Se qualche sentore s’era avuto con Gronchi a partire da questa elezione possiamo cominciare ad ammirare i prodromi di quel che sarà. E non sarà, quasi mai, un bello spettacolo.

Le candidature son due. Una sostenuta dalla DC, nella persona di Antonio Segni. L’altra sostenuta dai socialcomunisti e ovviamente dai socialdemocratici, nella persona di Giuseppe Saragat. C’è solo un particolare, non del tutto insignificante. Il 2 marzo del 1962 è nato (podalico) il quarto governo Fanfani, sostenuto da DC, PSDI, PRI e con l’appoggio esterno del PSI.

Capirete che si tratta di un pasticciaccio brutto. Il segretario DC, Aldo Moro, non pago delle convergenze parallele di due anni prima, si esibisce in un’altra ardimentosa uscita, la candidatura non contrapposta ma parallela. Testualmente dirà: ‘La DC sostiene la candidatura di Antonio Segni non in contrapposizione ma in parallelo con quella di Giuseppe Saragat’. Che Moro, per dirla tutta, se non l’avessero elevato a santino (e statista) per i noti fatti, era un altro che dava le sue belle soddisfazioni.

La realtà è ben più impervia. Quella melma che va sotto il nome di corrente dorotea, un raffinato consesso che negli anni diede asilo a nobili figure quali Rumor, Bisaglia, Gava, Scotti, Colombo, Piccoli, al congresso conclusosi in gennaio aveva assentito alla svolta a sinistra predicata da Fanfani. Ma non gratuitamente. Aveva infatti preteso in cambio la candidatura alla presidenza del proprio leader indiscusso, Antonio Segni.

Quindi altro che parallela ma non contrapposta. Segni alla presidenza era questione irrinunciabile. Settantunenne, sassarese, con quarti di nobiltà ma un sincero afflato popolare entrò giovanissimo nel PPI di Don Sturzo e si segnalò per una ferma opposizione al fascismo. Docente di diritto, padre costituente, da ministro dell’Agricoltura si distinse per una riforma agraria che fu storica. E va segnalato che quella stessa riforma lese, e pesantemente, gli interessi della famiglia della moglie, Laura Carta, proveniente da una ricchissima stirpe di grandi proprietari terrieri. Un conservatore, ma anche, alla sua maniera un riformista. Due volte presidente del Consiglio sarebbe il candidato ideale comunque.

Ma in casa DC, sarà per la vena profondamente cattolica, Giuda imperversa. Per sette scrutini Segni è in testa, ma senza mai raggiungere i voti necessari all’elezione, sebbene siano confluiti sul suo nome anche liberali, monarchici e missini.

Per uscire dallo stallo, Saragat propone di congelare la propria candidatura e quella di Segni per una di compromesso, il Presidente della Camera Giovanni Leone. I dorotei mettono in atto un pandemonio, minacciano di far cadere il governo Fanfani e alla fine i voti, per Segni, saltano fuori.

All’ottava votazione, Segni manca il quorum per appena 4 voti. Si capisce che ormai è fatta. I commessi redistribuiscono le schede a tempo di record. Non fanno neppure in tempo a distribuirle tutte che si comincia subito a votare. Un deputato DC ancora sprovvisto della sua, ma chiamato in ordine alfabetico, si fa passare quella del vicino di scranno. Già compilata col nome di Segni. Se ne avvede Pertini, che fa uscire tutti i socialisti dall’aula gridando al broglio, mentre si strilla ‘camorra, camorra’. Una gazzara montata, ammettiamolo, su una cosa del tutto innocente, per una volta.

Ma in ragione della sospensione di due ore, Togliatti si gioca l’ultima carta, offrendo a Leone i voti dei socialcomunisti e assicurandogli che Moro gli porterebbe in dote quelli della sinistra DC. Leone rifiuta recisamente e qualche minuto dopo convoca la votazione 9-bis, che incoronerà Segni.

Per la prima volta la neonata televisione trasmette l’elezione del presidente, e gli Italiani possono ascoltare lo spoglio dalla viva voce del Presidente Leone, che con inconfondibilie cadenza napoletana alterna ‘Seggggni’ a ‘Saragatte’. Volete mettere? Il discorso di insediamento è l’opposto di quello gronchiano, e pare di intendere che il neo presidente voglia mettere al centro il Parlamento e non la sua persona.

Anche la moglie, Donna Laura, rifuggirà per quanto possibile le occasioni pubbliche mostrandosi quale personaggio di rara discrezione. Sobrio e rigoroso, con se stesso prima ancora che con gli altri, Segni sarà un uomo solo, in quel ruolo. Intendiamoci, il potere rende soli, per antonomasia. Ma Segni, anche per carattere (riservato, ombroso, chiuso, diffidente) lo fu più di altri.

E questa solitudine, giocò, forse, un ruolo nei rapporti tra lui ed il generale De Lorenzo. Interessante figura quella di De Lorenzo. Capo dei servizi segreti, poi comandante dei Carabinieri, poi ancora capo di Stato Maggiore dell’esercito, di fronte alle crescenti tensioni di piazza, all’instabilità politica, alla difficoltà di mantenere in piedi dei governi di centro-sinistra, elabora un piano, il Piano Solo, che, se non è un golpe, gli va pericolosamente vicino (ma in realtà è un golpe vero, sullo stile di quello dei colonnelli in Grecia) L’idea è quella di militari provvisoriamente al potere, deportazione di 731 politici e sindacalisti di sinistra (gli “enucleandi”) nella base Nato sarda di Capo Marrargiu, occupazione della Rai e dei giornali di sinistra. Quando lo presenta al Presidente, questi ne rimane profondamente turbato (ma uno normale, lo avrebbe fatto arrestare, senza meno).

Storici e giornalisti sosterranno che Segni non avesse intenzioni golpiste, ma cercasse di imprimere con la paura una svolta all’impasse politica. Sarà. Resta il fatto che a giocare col fuoco, il rischio di scottarsi è notevole. Non se ne farà nulla, ma da quel momento, l’uomo Segni non sarà più lo stesso.

Le immagini ce lo mostrano commosso davanti a parate di carabinieri. Sintomo che qualcosa non andava. Fosse depresso o solo spaventato e turbato, è un segreto, uno dei molti, che s’è portato dietro. Perchè era un uomo solo, come si diceva. E non risultano, caso raro in Italia, confidenti.

Ma certe faccende non covano a lungo sotto la cenere. E la versione del Piano Solo che giunge alle orecchie di Nenni risulta allarmantissima. Se fosse stata esagerata o se si trattasse semplicemente del Piano originale, non si saprà mai. Il 7 agosto, ha luogo una tempestosa riunione.

I convenuti sono Segni, Moro e Saragat. Testimoni riferiranno di aver sentito i tre urlare, da dietro la porta chiusa. E qualcuno dirà che Saragat minacciò Segni di trascinarlo davanti all’Alta Corte di Giustizia. Resta il fatto che quando si apriranno le porte i commessi vedranno un Segni esanime tra le braccia di Moro e Saragat. Una trombosi lo immobilizzerà, nel corpo, lasciandolo in uno stato di parziale incoscienza sino alla morte, avvenuta nel 1972.

Si sigla un dichiarazione di inabilità temporanea, per permettere a Merzagora, Presidente del Senato, di assumere l’interim, e si cerca di dare una sistemata alle questioni politiche più calde, prima di far firmare allo stesso Segni (o a chi per lui, come si sussurra), le dimissioni. E’ il 6 dicembre 1964 e si comincia a pianificare la nuova elezione del Capo dello Stato. Segni è passato come una meteora, ha conosciuto storie oscure, e le ha portate con sé. Lasciandoci, come d’uso, in un mare di congetture.

Pillole da un settennato incompiuto

Il 5 agosto 1962 a Brentwood, Los Angeles, viene trovata morta, stroncata da overdose, Marilyn Monroe. Il mito di un’epoca. La quintessenza della bionda. Ma anche i Kennedy, la Mafia, Joe Di Maggio ed Arthur Miller. 36 anni vissuti senza risparmiarsi.

Il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington, un pastore protestante di colore, Martin Luther King pronuncerà la frase ‘I have a dream’. Cinque anni più tardi, uccideranno lui, ma non il suo sogno.

Il 22 novembre 1963, a Dallas, Texas, Lee Harvey Oswald (o chi per lui) uccide John Fitzgerald Kennedy. E chiude per sempre un’epoca che fu di speranze (anche se talora mal riposte).

Il 21 agosto 1964, a Yalta, in Unione Sovietica, muore Palmiro Togliatti. Ha segnato, profondamente la storia politica italiana. E fu, probabilmente, una delle figure politiche più complesse e sfaccettate di questo Paese.