Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante

E diciamolo. Cheppalle. Ieri sera all’ora di cena va in onda la consueta botta di ottimismo.

Quei porelli nati dopo il 1980 pare andranno in pensione a 75 anni. Pensare che erano nati sotto i migliori auspici, quelli dei favolosi anni ’80, quelli della Milano da bere, che poi diventò la Milano da sniffare e che, attualmente, pare più che altro la Milano da smerdare.

Ma non divaghiamo, che se no poi non si capisce più nulla.

Insomma pare che i figli degli anni ’80 andranno in pensionea 75 anni. Invece noi, quei gran paraculi nati negli anni ’70, ci collocheremo finalmente a riposo a 70 anni.

Ammesso che freghi a qualcuno, il mio personale fine pena è previsto a 70 anni e 3 mesi, avendo cominciato a lavorare dopo il 1996. Che potrebbe scendere a 66 anni al raggiungimento dei 41 anni e spingi di contribuzione. Ma non è ancora ben chiaro.

Insomma, pare evidente, se Atene piange non è che Sparta si sbellichi dalle risate.

Detto questo, andrebbero fatte alcune considerazioni che non hanno a che vedere con l’economia ma col buon senso.

Se si tiene il punto, dovremo fare i conti, fra una trentina d’anni, con un parco lavoratori composto da una consistente fetta di rincoglioniti. Che, ammettiamolo onestamente, non sta mica scritto che a 75 anni uno sia perfettamente in bolla. Ammesso che fosse valido almeno da giovane. Il che non è detto, peraltro.

Senza contare che, a quell’età, qualche acciacco è garantito anche se la testa funziona. Immagino il gaudio delle aziende alle prese non più con le maternità a rischio ma con le vene varicose, la prostata, e il salcazzo quotidiano. Un’allegria di naufragi. Tra l’altro, per una volta

E questo anche risparmiandoci il solito pippone sul futuro dei giovani (che, se sono furbi, emigrano verso un futuro e un clima migliore).

Però, va fatta anche un’altra valutazione.

Io figlia degli anni ’70, che godo di una situazione vagamente migliore, potrei anche essere disposta a rinunciare a qualcosa per sanare quella che è una sperequazione evidente.

Però vorrei anche che le situazioni venissero vagliate ad personam. Eh già. Perchè di quei figli degli anni 80, ne conosco tanti. E se qualcuno ha avuto un percorso professionale accidentato per eventi a lui non imputabili, molti altri ci hanno messo (parecchio) del loro.

Se Tizio ci ha impiegato quindici anni a finire un percorso universitario che avrebbe dovuto durarne cinque sulla carta, delle due l’una: o a ha sbagliato miseramente facoltà o era un fancazzista di prima.

In ambo i casi, non vedo sinceramente perchè, di tale evidente pirlitudine, o mancanza del minimo sindacale di buona volontà, debba farsi carico la società che avrebbe già i cazzi suoi a cui pensare. Se tu cazzeggiavi beato negli anni in cui io mi tiravo il mazzo, non è che poi in vecchiaia io debba tirarmi ulteriormente il mazzo per dare una mano a te.

Egualmente, se Caio ha immolato anni alla ricerca del lavoro dei suoi sogni per poi scendere a patti con la realtà con colpevole ritardo, la colpa è sua, non mia. Uno ha diritto ai suoi sogni, ma anche il dovere di pagarsi le bollette.

Non è qualunquismo, e neppure insensibilità (che poi, la sensibilità è sentimento assai sopravvalutato). Ne ho conosciuti parecchi sia della prima che della seconda categoria. Gente che ha trovato la maniera di fare un cazzo per anni, sostenuto (e sostentato) da famiglie tossiche formate da genitori comprensivi e adoranti che hanno fomentato sogni irrealizzabili e trangugiato balle miserevoli senza fare un plissé.

E se è vero che ciascuno a casa propria fa come gli pare, non vedo perché delle conseguenze debba poi farsi carico la collettività.

Dimostrami che hai provato a percorrere la tua strada ma ti sei trovato di fronte gente disonesta, furbetti di ogni risma, approfittatori di varia specie (che là fuori è pieno di gentaglia) e allora avrai non solo la mia solidarietà ma anche la mia disponibilità a mollare un pezzetto (piccolo, eh) del mio affinché anche tu abbia un po’ del tuo.

Ma in caso contrario, per quel che mi riguarda erano, sono e saranno tutti cazzi tuoi.

Perché anche questa volta la sensazione è che stiano per fregarci tutti per una manciata di voti, e direi che sarebbe il caso di dire anche basta.

Economics for dummies/7 Come non investire e vivere felici

Sarò politicamente scorretta. Se c’è una cosa che mi fa scendere le palle è il buonismo imperante.

Proviamo a comportarci da adulti (atteggiamento che fa inorridire la maggior parte dei politici nostrani). E cominciamo col dire, fin da principio, che non esiste una ragione al mondo per cui il Governo, lo Stato o Bankitalia debba provvedere al rimborso delle obbligazioni emesse da Banca Etruria.

Lo Stato, in sé, non ha obbligo alcuno nei confronti delle Banche in senso assoluto (che poi, nei fatti, in qualche modo intervenga nelle questioni che si presentano rientra in quel concetto di pace sociale che è pilastro portante di ogni democrazia).

Chi ha degli obblighi, ben definiti e normati, è Bankitalia, che è tenuta a tutelare i correntisti (e ribadisco solo i titolari di conti correnti). E pure la tutela dei conti correnti è a concorrenza. A concorrenza implica che Bankitalia è tenuta a tutelare i correntisti sino a 100.000 Euro per depositante e per Banca. Pertanto, se siete i fortunati possessori di somme che superano i 100.000 Euro, oltre a complimentarmi con voi, vi suggerisco, ma caldamente proprio, di suddividere i vostri averi in conti correnti di importo non superiore a Euro 100.000 e di aprirli in banche differenti. Se vi diranno che così ‘prenderete meno interessi’ è vero. E’ vero anche che quello 0.5% in meno che guadagnerete va a garanzia di non perdere il capitale. A questo punto, se scegliete diversamente, son cazzi vostri e non piangete.

Poi esistono prodotti finanziari diversi che vengono venduti dalle banche e che possono essere prodotti delle banche stesse o prodotti di terzi (per esempio aziende quotate in Borsa).

In genere i prodotti finanziari in vendita sono di tre tipologie:

BOT e BTP emessi dal Tesoro. Essendo emessi dal Tesoro sono titoli di Stato. Ciò non inganni. Con l’istituzione del fondo salva-stati nel 2013, è caduto l’obbligo per il singolo stato di garantire i titoli. Quindi se lo Stato fallisce sono, nuovamente, cazzi vostri. Detto ciò sono comunque i meno rischiosi poiché l’eventualità di un fallimento, comprando titoli di Paesi della UE, è piuttosto ridotta. Prova ne sia che i tassi di interesse sull’investimento sono risibili. Resta comunque da vedere se il tasso d’interesse valga il rischio che pure continua ad essere esistente.

Fuori dal circuito dei titoli di stato esistono due possizibili opzioni, azioni e obbligazioni.

Sono tipologie di investimenti differenti: con l’acquisto di azioni si diventa titolari di quote che rappresentano parti del capitale sociale e si partecipa così sia agli utili che alle perdite della società. Attenzione anche alle perdite.

Con l’acquisto di un’obbligazione, invece, si presta del capitale ad una società, e per un periodo di tempo determinato, in questo periodo vengono percepiti degli interessi.

Messa così le obbligazioni hanno, è evidente, un profilo di rischio inferiore rispetto alle azioni.

Il problema è che non è esattamente così, perchè di obbligazioni ce ne sono diverse tipologie, con profili di rischio più o meno elevati.

Le obbligazioni emesse da Banca Etruria avevano un profilo di rischio elevatissimo, perchè per la loro stessa natura di obbligazioni subordinate sono una particolare categoria, il cui rimborso in caso di fallimento è, per l’appunto, subordinato a quello dei creditori ordinari (privilegiati e chirografari).

Pertanto hanno una natura che le accomuna più alle azioni che alle obbligazioni poiché chi le acquista partecipa a tutti gli effetti al rischio d’impresa.

Stante che in caso di procedura fallimentare il portatore viene soddisfatto per ultimo, la probabilità di perdere il 100% del capitale investito è elevatissima.

E’ una situazione, questa, non diversa da quelle Cirio, Parmalat, Telecom, solo per citare alcuni casi. E anche lì, mica il Governo è andato in soccorso dei risparmiatori gabbati.

Altro punto: sui prospetti, lo assicuro, le condizioni sono scritte. Che poi siano scritte presumendo una certa competenza da parte del firmatario è altra questione.

E che esista una percentuale di dolo, anche elevata, da parte di banche e funzionari, è senz’altro un dato di fatto.

Ma se una persona che abbia vissuto in italia o in Europa dal 2008 a oggi mi dice che si fida delle banche, con tutto il rispetto, ci sta mettendo del suo.

L’opzione più probabile, è che, di fronte al consulente bancario, ai risparmiatori sia stato prospettato un ottimo guadagno generato dagli interessi (veritiero). Per fare un esempio un’obbligazione subordinata ha un rendimento (lordo) del 2,9%, un BTP decennale del 1,5%, un obbligazione ‘senior debt’ (che rientra tra i crediti privilegiati e viene quindi pagata) all’1%.

Certo i dolosi funzionari (e sono delle merde, diciamolo pure) avranno elargito consigli dicendo che queste opzioni sono più tranquille ma meno redditizie, mentre le altre solo ‘un po’ più rischiose’ hanno un rendimento decisamente più soddisfacente.

Però, cazzo, il funzionario non è tuo figlio, e tu una mezza domanda davanti al fatto che un’obbligazione rende più del doppio di un’altra dovresti fartela.

Perchè la fa facile, Salvini, a sfruttare la rabbia popolare ma la realtà è che oggi il risparmiatore ha davanti a sé una giungla di opzioni, e nella giungla, si sa, o ti salvi da solo o soccombi.

E investire, ricordiamolo, non è né un obbligo di legge, né un adempimento indispensabile. E’ una scelta. E di fronte ad una scelta, si può anche dire di no ed alzarsi dal tavolo.

E sì, si può anche non investire e vivere felici.

 

Economics for dummies/6

Sì, lo so, è lunedì. Ma oggi il lunedì film cede il passo a economics for dummies, che la politica italiana è meglio di un film, e l’attitudine di tirare per la giacchetta incolpevoli economisti è una sceneggiatura già troppe volte vista.

Intanto una constatazione. Io capisco che un telegiornale dura una trentina di minuti, e non ci si può dilungare troppo, ma certe spiegazioni prenderebbero, si e no, dieci secondi, e renderebbero il quadro più chiaro a molti senza bisogno di troppe chiavi di lettura. L’assenza di queste spiegazioni, personalmente, la vivo come un generare confusione in maniera fraudolenta.

Fraudolenza o meno, la qualità dell’informazione economica che viene veicolata nel corso di un telegiornale è di livello talmente basso da rasentare l’imbarazzante. Se siete seguaci della Signora in giallo o di Law & Order, seguite pure il vostro telefilm preferito senza residui sensi di colpa. State perdendo molto, molto poco.

Nell’ultimo fine settimana almeno due economisti (veri) sono stati tirati gettati nell’agone dai 5 stelle e dai transfughi della sinistra PD.

Uno, Keynes, è morto e non ci può far nulla, l’altro, Stiglitz, quello vivo, non escluderei possa esprimere le sue rimostranze (d’altronde già lo fece con Fratelli d’Italia e il Front National quando tentarono un’operazione analoga a quella dei pentastellati).

Più che altro, nel grande bar sport che è la politica italiana, i riferimenti a Stiglitz e Keynes paiono più un riempirsi la bocca e un crearsi referenti economici che un ragionamento politico-economico espresso in modo coerente.

Keynes era un sostenitore dell’intervento dello Stato nell’economia. Il resto, moltiplicatore keynesiano, curve IS-LM, propensione marginale al consumo, domanda aggregata, sono tutte, permettetemi, pippe adatte agli addetti ai lavori. E un modo per evitare che l’opinione pubblica si formi un giudizio.

La teoria keynesiana garantisce la piena occupazione. E’ ovvio, ma diciamolo, che lasciare libertà di spesa allo stato, per occupare pienamente la forza lavoro, significa drogare l’economia indipendentemente dalla domanda.

Adesso proviamo un esercizio, leggete ad alta voce le righe a seguire e cronometratevi:

Keynes è un sostenitore dell’intervento dello Stato nell’economia. La teoria keynesiana garantisce la piena occupazione. Se si lascia libertà di spesa allo stato, per occupare pienamente la forza lavoro sarà sufficiente drogare l’economia indipendentemente dalla domanda, in questo modo tutti lavoreranno ed avranno un reddito. Questo ovviamente aumenterà il debito pubblico.

Io mi sono cronometrata: 14 secondi. E sono ragionevolmente più lenta di uno speaker professionista. L’informazione di cui sopra è del tutto neutra, illustra, né più né meno, il pensiero di Keynes. Senza giudizi di valore. Possiamo dire che un’informazione del genere è più completa di ‘i transfughi del PD vogliono un approccio economico fondato sulla teoria keynesiana’? Possiamo ammettere che per una parte degli ascoltatori la teoria keynesiana è un enorme buco nero?

Perchè ammettiamolo, è giusto che un telegiornale non dia giudizi.

I giudizi, allora, diamoli qui. Keynes era un teorico. Ed anche un grandissimo economista. La teoria keynesiana portò gli Stati Uniti e il mondo fuori dalla crisi del ’29. Fin qui tutto vero.

Ma durante la seconda crisi economica, quella degli anni ’70, l’applicazione delle teorie keynesiane aggravò la crisi. Perché? Perché erano cambiate le condizioni di partenza. C’era un cartello che governava il prezzo delle materie prime (in primis il petrolio). Come da manuale, governi incrementarono come sempre la spesa pubblica per uscire dalla crisi. Teoria keynesiana appunto. Partendo dall’assunto che, se aveva sortito effetti una volta, li avrebbe sortiti sempre.

Peccato che, variate le condizioni di fondo, l’unico risultato fu un incremento dell’inflazione e nessuna crescita del PIL. Quel grazioso fenomeno che prenderà nome di stagflazione (stagnazione+inflazione).

E comunque, anche quando funziona, il sistema keynesiano, genera un debito che prima o poi pagheranno le generazioni future. Praticamente la fotografia dell’economia italiana (e non solo) oggi.

Quindi Fassina e gli altri facessero il favore santo, la piantassero di riempirsi la bocca di nomi altisonanti per tirare su quattro voti in croce. Per fare le scarpe a Renzi, dovrebbero solo mettersi a lavorare. Seriamente.Evidenziando le (molte) pochezze del Premier ed i parecchi inciampi che ha sin qui collezionato. E lasciassero in pace Keynes.

Stiglitz, invece, porello, è diventato il nuovo vate dei Cinque Stelle. Intanto, caso mai, qualcuno l’avvisasse della fine che han fatto tutti quelli che l’han preceduto, Rodotà in testa. Che lì, se non sei d’accordo col capo, finisci al muro (e alla gogna mediatica) tempo zero.

In realtà, Stiglitz l’hanno cooptato perchè con Occupy Wall Street, la sua fuoriuscita dalla Banca Mondiale e i suoi interventi ‘contro’ è assurto a campione di certo antagonismo.

Quel che nessuno dice, però, é che Stiglitz non ha mai fornito alcuna ricetta per uscire dalla crisi. Intanto perchè non è il mestiere suo. Stiglitz è un grande microeconomista. E infatti il Nobel, nel 2002, l’ha vinto, in condivisione, per il suo contributo alle asimmetrie informative. La distinzione tra micro e macro-economia non è capziosa come i grillini vogliono far intendere. Un saltatore in lungo e un saltatore in alto fanno entrambi atletica nella categoria salto, ma nessuno si sognerebbe mai di considerarli intercambiabili.

Il vero dato di fatto, e in questo Stiglitz è profondamente pentastellato, é che il suo approccio macroeconomico è sempre stato demolitorio e critico. Questo non funziona, quell’altro non funziona. Eh, complimenti vivissimi. Lo potevamo dire gratis anche noi. Ma una ricetta anticrisi? Ecco, sulle ricette è sempre stato molto più cauto. Perchè non ne ha sostanzialmente. E anche le sue posizioni no-Euro sono molto più sfumate di quanto venga normalmente propagandato. E’ critico, certo, ma non ha mai parlato di fine dell’Euro a differenza di altri. Probabilmente perchè sa di trovarsi di fronte ad un processo irreversibile. Ed è per quello che, non essendo uno sciocco si è sfilato rapidamente dall’abbraccio mortale di Fratelli d’Italia e del Front National.

Questo non significa che stiglitz non dica cose assolutamente condivisibili. Quando critica il FMI ed le istituzioni finanziarie mondiali afferma cose largamente condivisibili, sia nel merito che nell’analisi. Ma basare le proprie convinzioni macroeconomiche su Stiglitz ha un vizio di fondo. L’assenza di una teoria macreconomica che da Stiglitz derivi. E questo è un vizio senza uscita.

La politica italiana dovrebbe smetterla di produrre fumo negli occhi, e i mezzi di informazione di propagandare questo fumo come se fosse Verbo. La realtà, molto più misera, é che questa crisi ha messo in ginocchio tutto senza eccezioni perché ad oggi nessuno ha ancora intercettato la Variabile, quella con la V maiuscola, quella che, unica, rappresenta la chiave di volta del problema.

Economics for dummies/5

L’ho letta tutta, la bozza d’accordo greca. Almeno le parti che sono state pubblicate. L’ho letta più volte. Mai fidarsi dei commenti tirati via di giornali e tv. Mai come in questa occasione, stanno cavalcando l’onda dell’emotività. Senza leggere tra le righe. Che leggere tra le righe, sia detto per inciso, è roba che costa. Tempo e fatica, per dirne due.

Tra la prima e la seconda bozza è passato un referendum e il blocco dei prelievi bancari. Tra la prima e la seconda bozza non passa tutta questa differenza.

Sulla puntata precedente nei commenti, è stato fatto notare che questa non è l’idea che avevamo d’Europa.

Gaberricci, a casa discutibili ne parla in maniera anche più estesa. E dicendo cose (anche) condivisibili, soprattutto per quel che concerne lo spirito europeo. Ma per testare la pochezza di spirito europeo, non serviva la Grecia. Bastano anche i migranti a Lampedusa. L’Europa non è un luogo di persone ma di regole ed accordi. Può piacere o non piacere, se non piace, conviene accomodarsi altrove. Non si intravedono grandi cambiamenti nel breve termine.

Ambo le parti hanno tirato dalla loro la coperta. Corta. Ne è discesa una sostanziale disinformazione che non ha fatto il bene di nessuno. Non dei greci che hanno dovuto subire una delle peggiori cazzate politiche della storia, non del resto d’Europa che questa vicenda poteva gestire infinite volte meglio.

E’ giusto far vedere la fatica quotidiana dei greci. Ma sarebbe giusto, anche, dare un’informazione economica equidistante, corretta e spiegata con semplicità. Facile? Difficile? Né l’uno né l’altro. E comunque un giornalista economico dovrebbe saperlo fare. Se non lo sa fare, o non lo sa fare sta facendo un lavoro inadatto alle sue capacità. Oppure sta servendo qualcuno. In ogni caso, non è una bella cosa.

Si parla a gran voce di ristrutturazione del debito greco. Tradotto: di riduzione dello stesso. Il FMI (che vuole recuperare il prima possibile i suoi soldi) ritiene che il debito greco non sia sostenibile e come tale vada ridotto. La Germania (miiii come son cattivi ‘sti tedeschi) sostiene invece che la Grecia sta già godendo di un sostanziale condono. E quindi niente riduzioni ulteriori.

Ciò che dice il FMI è vero, se parliamo della restituzione del capitale. Ma tralascia il fatto che nessuno pensa seriamente che quel debito verrà mai estinto. Qui si parla, di restituzione degli interessi.

Gli oneri da interesse della Grecia erano al 7.5% del PIL nel 2011 (al primo tracollo) sono stati portati al 4% nel 2014. Prima dell’uragano Tsipras erano al 2.2%. Quello dell’Italia (ma anche di Paesi più solidi di noi come il Belgio) viaggia intorno al 5%.

In sostanza, su un debito inferiore corrispondiamo interessi superiori. E questo è un fatto.

Inoltre, la Grecia superato l’annus horribilis del 2015 (con la restituzione di 25 miliardi) non ha ulteriori grandi scogli. Comincerà a rimborsare i Paesi europei dal 2020 e il fondo salvataggi dal 2022, con una dilazione fino al 2055.

La chiusura delle banche, i prelievi da 60 Euro (e i pensionati in lacrime) sono causati certamente dalla situazione contingente (e quindi dalla rigidità oggettivamente eccessiva dell’Europa) ma anche dalla superficialità di Tsipras e Varoufakis.

Non lo dice la Merkel (che è tedesca e in quanto tale cattiva) ma Kouvelakis. Un dirigente di Syriza, non il fratello di Schauble. Quando si comincia ad ipotizzare il referendum, Lafazanis, uno dei più fieri oppositori della trojka approva, ma avanza il sospetto che la BCE taglierà la residua liquidità alle banche greche. Tutti ridono. In realtà il 27 giugno la BCE bloccherà la liquidità d’emergenza alle Bancher greche perchè in caso di referendum sull’adesione alla comunità, esiste una norma che blocca in automatico l’erogazione di ulteriore liquidità. Si può anche essere sprezzanti, ma la disinformazione a certi livelli diventa dilettantismo.

Un episodio riferito da Stathis Kouvelakis, un dirigente di Syriza, è illuminante riguardo al clima che ha portato alla chiusura delle banche. Il 26 giugno Tsipras raccoglie i fedelissimi per decidere sul referendum contro l’accordo europeo. Kouvelakis è lì. Panagiotis Lafazanis, il leader dei «duri», approva il referendum, ma prevede che l’Europa avrebbe reagito tagliando la liquidità alle banche. Tutti nella stanza scoppiano a ridere. I fatti sarebbero andati diversamente. La Bce ha sì bloccato il 27 giugno la liquidità di emergenza per le banche greche, non per ritorsione ma perché vincolata dalla legge. Eppure quella risata rivela come Tsipras e i suoi non avessero colto la fragilità della situazione.

Altra cosa non del tutto vera è il fatto che i miliardi di Euro fluiti dai pacchetti di aiuti siano finiti nelle tasche delle banche estere. Ciò è assolutamente vero. Le banche europee si sono risanate depurandosi dei titoli spazzatura greci. e meno male aggiungerei, se no l’effetto contagio era assicurato e non sarebbe rimasto in piedi nessuno dei paesi dell’area Euro.

E’ vero però anche che i Greci avevano investito in abbondanza sui titoli di stato del loro Paese. Quindi senza aiuti i loro risparmi sarebbe finiti direttamente nello scarico. Che non era, comunque, un’ipotesi preferibile.

L’austerity avrebbe distrutto l’economia greca. Senz’altro. poi Tispras e varoufakis ci hanno messo su il carico da 90.

La Grecia aveva ripreso a crescere e stava arrivando (a gennaio) ad un aumento del 3% circa del PIL. L’ascesa era iniziata già nel terzo trimestre del 2014, in ragione di una buona stagione turistica che aveva tutte le caratteristiche per essere anche migliore nel 2015 (con la caduta libera causa IS di altre destinazioni low cost quali Sharm e l’Egitto, la Tunisia e il Marocco).

Cos’è successo? Il governo Tsipras ha congelato i pagamenti alle imprese per portare avanti il negoziato senza nuovi prestiti. Ora. Io non so Varoufakis come la pensi, ma non occorre essere dei fini economisti per capire che se lo stato smette in toto di pagare le aziende creditrici sue proprie, le stesse o falliranno, o, nella migliore delle ipotesi non erogheranno stipendi (deprimendo i consumi) e non pagheranno i contributi previdenziali (mandando ancora più in rosso la già agonizzante previdenza sociale).

Il risultato è stata la paralisi dei consumi e degli investimenti. E il crollo del PIL. Senza contare che anche se un investitore estero avesse una pur minima idea di investire in Grecia se ne terrebbe accuratamente alla larga.

Se la Grecia dovesse uscire dall’Euro i soldi investiti varrebbero, più o meno, come la carta igienica. Non si può parlare di uscita dall’Euro un giorno sì e uno no. O si esce (con un colpo secco, come quando si leva un cerotto) o si sta dentro. A tentennare se ne esce sempre indeboliti.

La riforma delle pensioni era uno strumento indispensabile. Posto che lo Stato ripianava mediamente, ogni anno, 18 miliardi di Euro. Ed era l’unica soluzione affinché gli assegni venissero pagati.

Prima della crisi, le pensioni greche somigliavano a quelle italiane di trent’anni fa. Calcolate in base agli ultimi cinque anni di stipendio, come nel vecchio sistema italiano “retributivo”, quello riformato nel 1995 (20 anni fa) da Dini che introdusse il “contributivo”.
In media i pensionati greci intascavano il 96% dell’ultimo stipendio (oggi, la metà).
Potevano ritirarsi dal lavoro dopo 37 anni di contributi o a 57 anni, Ma se facevano lavori usuranti, bastavano 53 anni di età.  Il problema è che le professioni usuranti erano 580 (praticamente tutte) e includevano parrucchieri, hostess dell’Olympia, speaker televisivi e radiofonici, suonatori di strumenti a fiato…

Il problema è che i pensionati greci sono poveri. Dopo le riforme del 2010 e del 2012 che hanno tagliato bonus come le tredicesime e gli assegni anche del 40%, la pensione media è di 700 euro con un 45% di pensionati che vive sotto la soglia di povertà, incassando 600 euro al mese.Il problema dei pensionati greci è che sono, banalmente, troppi. Gli ultra 65enni sono un quinto della popolazione greca. Con un’aspettativa di vita di 80 anni. Le pensioni incidono oggi il 13.5% del PIL greco. Col vecchio sistema pensionistico nel 2050 le proiezioni mostravano una spesa pensionistica pari al 25% del PIL.Le prime riforme hanno insistito più sul taglio degli assegni pensionistici che su un’effettiva applicazione dell’aumento dell’età pensionabile.Il risultato di queste riforme è stato rivelato a dicembre scorso dal governo Samaras al Parlamento greco: tre quarti dei greci riesce ancora a lasciare il lavoro grazie alle “scappatoie legali” prima dei 61 anni. Il ministro del Lavoro, Yiannis Vroutsis, rivelò che nel settore pubblico, il 7.91% si ritira tra 26 e 50 anni, un altro 23.64% tra 51 e 55, e il 43.53% tra 56 e 61.

L’Ika (per semplificare l’INPS greca) nasconde dati altrettanto preoccupanti, il 4.44% dei pensionati del settore privato si ritira dal lavoro tra 26 e 50 anni, il 12.83% prima dei 55, e il 58.61% tra 56 e 61.
Il vero punto nodale della crisi greca è l’assoluta assenza di lealtà tra le parti. E questo vale in senso bilaterale. I greci hanno sempre fatto riforme di superficie, aggirandole poi anche scopertamente. L’Unione Europea ha alzato il livello dello scontro imponendo misure che hanno anche un senso, economicamente parlando, ma che tengono conto dei soli numeri.
L’economia, se non viene stemperata dalla sociologia, è una scienza inutile, un esercizio di stile. Anche interessante (per gli appassionati) ma privo di applicabilità. La Repubblica di Platone ha un suo senso, finchè la si studia come un esercizio di stile. Ma se la applichi ti ritrovi a marciare al passo dell’oca sotto la porta di Brandeburgo.
Non si può mandare all’inferno 11 milioni di persone, solo perchè governati da un gruppo di intellettuali supponenti e molto approssimativi. Pure, non si può concedere a 11 milioni di persone di fare quel cazzo che gli pare mentre altri sono assoggettati ad una serie di regole. Perchè anche quella, se ci guardate bene è equità.
Il problema non è un punto d’IVA, lo sa Tsipras, lo sa Schauble, e pure la Merkel. Il punto è capire se la Grecia è parte o no dell’Unione europea. Se lo è (e lo è) va accompagnata in un percorso di riforme serie, condivisibili, ed applicabili. Stanziato che quelle riforme sono applicabili, vanno applicate, senza sconti.
Non si può affamare una nazione, e neppure umiliarla. Questo ce lo ha insegnato la storia. Ma non si può neppure farsi dominare, sempre, dalle emozioni, che il Romanticismo, quello sì, ci ha rovinati, noi italiani.
Perchè, per fare esempi pratici, se permetto a un greco di andare in pensioni prima dei 61 anni, nonostante lo stato dell’IKA, poi non posso lamentarmi se l’esodato che se l’è presa in quel posto con la Fornero vota Grillo o Salvini. Non è becero. E’ incazzato. Anche abbastanza legittimamente.
Perchè posso (e devo) commuovermi per i pensionati greci, ma non posso dimenticare che un pensionato su due in Italia prende meno di 1000 euro al mese (con un costo della vita ben superiore a quello greco), e il 14% ha un assegno di 500 Euro.
Perché se no, anche qui, non posso continuamente discutere se siano beceri, razzisti, o se ce l’hanno con l’immigrato. Perchè sono incazzati. Legittimamente. Il resto, è rba da talk show, da anime belle e da ecumenisti. E questo vale in Italia, ma anche in Spagna e in UK e in Francia. Ma siete davvero convinti che Podemos, piuttosto che Farage, o la Le Pen siano solo il prodotto di un fascismo strisciante, brutto, sporco e cattivo? Sono ANCHE quello. Ma sono soprattutto l’espressione di un diffuo senso di ingiustizia che sta percorrendo tutta l’Europa.
E ricondurre il discorso al solo disagio greco, nasconde il senso, amplissimo, di questa deriva.

Economics for dummies/4

Se la Grecia uscirà o meno dall’Euro, con tutto quel che ne consegue, lo scopriremo alla fine di questa settimana.

Detto ciò, ed indipendentemente da quel che accadrà quando scorreranno i titoli di cosa, alcune considerazioni sono d’obbligo.

Anzitutto, la Grecia dall’indipendenza (1830) ad oggi è andata in default 7 volte. Troppe, per essere un caso. In realtà è il risultato di comportamenti reiterati nel tempo e mai modificato, oltre che di debolezze strutturali del sistema Paese.

La Grecia è uno dei Paesi più corrotti d’Europa, per certo il più corrotto di quello che era un tempo il ‘blocco occidentale’, e mi riferisco solo ed esclusivamente della pubblica amministrazione. Anche nel privato la corruzione è regola. E non per sentito dire. Chiunque si occupi di export, piuttosto che occuparsi del mercato greco si farebbe volentieri investire da un TIR tale è il fetore (e nonostante il nostro essere italiani, peraltro).

Il 60% della popolazione attiva è impiegata nella pubblica amministrazione, che, di fatto, è l’unica entità produttiva dello Stato. Non occorre essere fini economisti per comprendere quanto questo incida sulla competitività del Paese.

Il comparto produttivo propriamente detto è insignificante, e si riduce sostanzialmente ai notissimi armatori che lo Stato ellenico da sempre coccola senza che questo porti alcun beneficio. Le tasse, quelle poche che pagano, le pagano all’estero, dove, con l’aiuto di valentissimi consulenti esportano i loro ingenti capitali. Del tutto legalmente, ça va sans dire.

Non che l’Europa sia stata inappuntabile nella vicenda. Perchè resta da capire con che criterio sia stato permesso alla Grecia di allargare la propria base debitoria sino ai livelli attuali. Fermo restando che quello è un Paese che avrebbe dovuto uscire dall’Euro molto prima e, peraltro, neppure entrarci.

Se il farlo entrare faceva parte di una valutazione politico/economica che valicava i (ristretti) margini di manovra dei trattati, ha poco senso lamentarsene ora. Anche se si può affermare con sufficiente convinzione che senza la devastante crisi economica (globale) di questi ultimi otto anni, il problema Grecia sarebbe rimasto ben occultato sotto il tappeto ancora per molto tempo.

Ma l’Europa, è, poi, così iniqua?

Tsipras propone

– una tassa del 12% per quelle imprese che realizzano utili superiori ai 500.000 euro l’anno. Cioè gli armatori di cui sopra che pagano (pur legalmente) le tasse all’estero. Possiamo ridere, ridiamo.

– di aumentare la corporate tax dal 26 al 29% per quelle imprese che realizzano utili in Grecia. A parte che vale per pagare tasse sugli utili occorre produrli (gli utili) vale la pena menzionare che in Italia la pressione fiscale sugli utili di impresa è al 65,8% (con la Francia al 64,7 e la Spagna al 58,6). e comunque ribadisco, in un sistema produttivo come quello greco è una misura inutile indipentemente dall’aliquota.

– di mantenere gli sconti sull’IVA nelle Isole (sull’aliquota del 23% uno sconto del 30%). Peccato che la maggior parte degli scambi ivati li generi il turismo, fenomeno prettamente isolano.

– Si rende disponibile a rivedere l’età pensionabile, elevandolo a 67 anni a partire dal 2022 (inzialmente dal 2025) e a 62 per chi ha 40 anni di contributi. In Italia uomini e donne andranno in pensione (nel privato) a 66 anni e 7 mesi già dal 2018, e potranno chiedere l’anticipo laddove abbiano maturato 42 anni di contribuzione. Questo tipo di impostazione è peraltro condivisa dalla maggior parte dei Paesi europei. Non è un abuso nei confronti del popolo greco, ma un mero dato di fatto che accomuna i greci agli italiani, agli spagnoli, ai tedeschi ed agli olandesi (per dirne alcuni). I danesi, peraltro, se la passano peggio e gli tocca lavorare un anno di più.

Soprattutto rifiuta:

– i tagli alla difesa (ne accetta per 200 mln e non per i prescritti 40 milioni)

– ma soprattutto (sembra una fesseria, ma è altamente significativo)  accetta di di riformare le regole per le licenze per gli investitori, ma non di farlo sotto la supervisione della Banca Mondiale. E qui torniamo, se volete, alla piaga della corruzione. Chi controlla il controllore? Nessuno. E perchè tanta acrimonia nei confronti del controllore? Ah, saperlo.

Confondere la situazione greca con quella italiana è un errore. La posizione italiana nasce più sfumata, e si origina, soprattutto, dalla cronica incapacità di riformarsi che ci affligge da sempre che non dalla sua incapacità di onorare le scadenze. Paradossalmente, pur nelle molte difficoltà, siamo stati gli unici, tra i Paesi a rischio, a non attingere a fondi di emergenza, e a continuare a pagare le nostre quote come da accordi. E pure a rimborsare le quote di interessi sul debito pubblico. certo non ce l’avremmo fatta senza la BCE, potrebbe sostenere qualcuno. Ma d’altronde la BCE, quando giocò pesante col nostro spread per levarsi Silvio B. dai coglioni, si riprese tutto e pure con gli interessi.

Il lavoro sporco della trojka in Italia lo fece Monti con l’avallo di Napolitano. Una trojka travestita, perchè l’Italia ha troppo peso per poterla commissariare come una Grecia.

Il nostro vero limite, in ogni caso, è l’esserci dotati (ed è colpa nostra, non solo loro) di una classe politica tanto imbecille quanto corrotta.

In questo, però, i Greci sono stati assai ben più fessi di noi, e dopo essersi affidati per anni alla famiglia Papandreu (gente che ai nostri corrotti faceva una pippa, per dire) si è fatta prendere per il culo dalle idee, dalla bella presenza, dallo stile giovane e dai proclami di Tsipras e Varoufakis. Che non si capisce se sono imbecilli, criminali o ambo le cose.

Hanno condotto la trattativa che peggio non si poteva.

Durante la trattativa non hanno mai dato la sensazione di lavorare per un accordo, animati dalla (falsa) convinzione che l’Europa fosse terrorizzata dal Grexit. E qui hanno dimostrato la loro pochezza. L’Europa era terrorizzata dall’uscita della Grecia dall’Euro nel 2012. Mentre la crisi picchiava duro. Mentre Italia e Spagna traballavano pesantemente. Soprattutto mentre non esistevano ancora strategie di uscita.

Ma ora? Ora la BCE ha preso le sue contromisure. Il crollo dell’Euro ha dato nuova spinta all’export. L’economia in Spagna ed in Italia si è riavviata (per quanto stentatamente), ma soprattutto sono stati iniettati nelle banche quattrini sufficienti ad evitare il rischio contagio.

Li ricordate tutti quei fondi che venivano iniettati nelle banche per far ripartire il credito alle imprese? E che invece alle imprese non sono mai arrivati? Ecco, il sosetto che quei fondi servissero a depurare le banche dai titoli tossici del debito greco e a preparare l’uscita dei Greci dall’euro è fortissimo.

E ora, l’ineffabile duo, Tsipras e Varoufakis, che ha giocato la propria partita sulla pelle dei Greci ha spostato la responsabilità della scelta sui greci stessi, in nome di un’idea di democrazia che non condivido e così riassumibile. ‘Tu mi hai delegato a trattare. Io non sono riuscito a portare a termine la trattativa. Ora decidi tu, popolo’ Che sarebbe anche un formato interessante di partecipazione diretta se:

a. tu non mi facessi decidere in un termine brevissimo, mentre i bancomat mi erogano 60 Euro al giorno, e il Paese si muove in uno spazio sospeso tra limbo e panico.

b. la coerenza sia una bella cosa, ma non necessariamente un valore. Quando guidi un Paese anche la capacità di correggere in corsa il tiro ha una valenza. Soprattutto se sei in grado di argomentare a chi ti ha votato la ragione

c. un governo lo si elegge per assumersi delle responsabilità, fare il referendum era un’idea lodevole, ma tre mesi fa. Che a febbraio, si era già capito l’andazzo.

Si aggiunga che, in questi mesi, mai hanno dato l’idea di cercare un rilancio della Grecia, ma solo di ambire a nuovi fondi per tirare a campare. Peraltro con un piglio da bulletti poco adatto alle circostanze.

Come finirà lo diranno le cronache e lo racconteranno un giorno i libri di storia. A noi non resta, in questi giorni d’estate che assistere sconfortati alla sconfitta dell’ideale europeo in senso più ampio. Un’ideale europeo, però, che è stato tradito da tutti, dall’Eurogruppo e dalla BCE, ossessionati dai bilanci e dimentichi delle persone. E dalla Grecia, che mai come in questi giorni è parsa interessata solo a prendere e mai a dare.

Aggiungo solo che le richieste finali dell’eurogruppo, quelle commentate sopra non sono né crudeli né inique ma sono applicate dalla maggior parte dei Paesi europei inclusi quelli dell’ex-blocco dell’est. Smettiamola quindi con la litania dei tedeschi cattivi. Che loro, le loro riforme, se le sono fatte da soli ed obtorto collo dieci anni fa per pagare i costi della riunificazione. E qualche risultato, quelle riforme, lo hanno apportato.

Basta vivere come le cose che dici

Dei molti, interessanti, spunti sorti dai commenti di ieri, uno varrebbe la pena estrarre dai commenti per dargli dignità propria.

Si parlava della necessità di staccare, che pare ovvia, ma così ovvia non è.

Come dicevo, a me lo stacco, serve per ripartire. Non ho bisogno di chiedere il permesso per staccare, il costo del mio stacco esce direttamente dalla mia tasca.

Quel che forse può risultare più interessante è che nemmeno i miei dipendenti debbono chiedere di staccare. E neppure debbono chiedere parecchie altre cose, a dirla tutta.

Alcuni pensano che dietro al mio modo di gestire il personale vi sia una trascuratezza di fondo. Il che, sia ben chiaro, non è.

Una quindicina di anni fa, circa, mi occupavo di personale e strutture organizzative. Dicevano, gli altri, che avessi un certo qual talento nella cosa. Son convinta, io, (e qui mi lodo e pure m’imbrodo), che senz’altro quell’ambito era quello in cui mi esprimevo, professionalmente, al meglio. Nel senso di: con maggior destrezza, sicurezza e acutezza di visione.

Pure compresi, rapidamente, che ciò non faceva per me. Neo-laureata, ero convinta, davvero, che un altro mondo fosse possibile. Beata innocenza. Purtuttavia, tra i miei molti difetti, certo non si può dire che non sia lesta a fiutare l’aria. Un altro mondo sarà anche stato possibile ma non in questa vita.

La gestione del personale, in Italia soprattutto, ma non solo, è fondata sul concetto cardine che ‘lo schiavo ha da schiattà’. Una volta compreso questo dogma, il resto vien da sé.

Non aiuta l’impreparazione, oggettiva, di molti direttori del personale, anche in realtà importanti, di fatto impreparati a gestire il personale, e le cui capacità sono solo di taglio analitico (ridurre i costi in primis). Quelle cosette che andrebbero sotto il nome di formazione (possibilmente non a pioggia, che è tra le cose più inutili del globo), di incentivi, di sviluppo di carriera, di selezione mirata, sono solo un vuoto rumore di fondo.

Quando cominciai, sempre beata innocenza, ero convinta che la gestione del personale dovesse essere a misura di persona. E non una mera ottimizzazione economico finanziaria delle risorse. Ne ero convinta come quasi tutti quelli della mia generazione, peraltro. Realizzato che il potere decisionale era in mano a chi scambiava la funzione di direttore del personale con quella di poliziotto (pure stronzo), una parte anche ampia di quelli che credevano di cambiare il mondo si assoggettò rapidamente (e senza troppo sforzo, aggiungerei), altri, tra cui io, considerarono che se volevam fare i poliziotti entravamo in polizia, e passammo ad altro.

Resto convinta che una gestione ‘umana’ renderebbe le aziende più efficienti. E nel mio piccolo, l’ho visto accadere. Oggi, di quelle questioni mi interesso al più sotto il profilo dell’interesse personale. Resta la desolazione dello spettacolo che ci si presenta quotidianamente dinanzi agli occhi.

Di seguito un decalogo ad uso e consumo del medio direttore del personale italico.

1. Il dipendente non è Kunta Kinte, e tu non sei sul set di Radici.

2. Per l’assioma precedente, Kunta Kinte troverà la forma più sottile ed efficace di mettertelo in quel posto. Ciò avverrà nel momento più improvvido, mentre già colpito a morte stai rantolando. Nessuno avrà pietà di te. Di certo, non io.

3. 10 ore al giorno senza alzare la testa dalla tastiera, senza sviare lo sguardo dal monitor, sono insostenibili. La concentrazione non regge così a lungo. Ciò non di meno, il dipendente lo farà, giacché tu glielo ordini. Pur tuttavia pensando soavemente ai cazzi propri e lavorando nei fatti assai peggio di come farebbe.

4. Corollario al punto 3. Non importa se uno lavora 10 ore, 12 ore, o 6 ore. L’importante è ciò che fa. e come lo fa. Non storcere il naso. Sai benissimo che ci sono degli strumenti per valutare la produttività di un dipendente. Solo che è una gran rottura di coglioni, e richiede parecchio tempo. Quindi, lo sfaticato, sei tu, non Kunta Kinte.

5. Nell’era degli smartphone, vietare l’accesso a internet dai pc dell’ufficio non è solo inutile. E’ pure patetico. E aggiungerei, lesivo della dignità del prossimo tuo. Non stupirti quando Kunta Kinte si ribellerà.

6. Negare permessi ed uscite extra, non fa di te un direttore temuto e rispettato, ma un povero stronzo. Peraltro, non è che se impedisci a qualcuno di accudire un bimbo malato o un anziano genitore, questi sarà il dipendente modello quel giorno. Perchè, sappilo, passerà la sua vita al cellulare, lavorando peraltro col culo, con le immaginabili conseguenze. Non si sta facendo appello alla tua inesistente umanità, ma al comune buon senso. Ah, già cazzo, ti manca pure quello.

7. Ci sarà sempre un’informazione essenziale da reperire in rete. E in quell’unico caso Kunta Kinte (giustamente) col cazzo userà il suo smartphone su cui fino ad un attimo prima messaggiava con l’amante. Per contro, chiamerà il service interno, che chiamerà il CED, che chiamerà altre otto persone, finchè gli sbloccheranno per un’ora il pc affinchè acquisisca le richieste informazioni. Se tu facessi due conti su quanto è costata tutta questa mafrina, avresti la visione del casino di soldi sprecati. Ma non lo fai. perchè richiederebbe fatica (e si torna al punto 4) e soprattutto perchè quando distribuivano la capacità di autocritica, tu eri in coda nell’altra fila per una dose supplementare di stronzitudine.

8. Lo so che fare formazione è contro la tua religione. Purtuttavia al finance frutta parecchi soldini in termini di contributi governativi e comunitari. D’altronde per farla bene, si torna al punto 4, toccherebbe lavorare. Mandare i contabili a fare il corso di inglese nell’anno pari, e i commerciali a fare quello di partita doppia non è solo ridicolo, sarà l’arma che si ritorcerà contro di te, il giorno che ti segheranno (per uno piu stronzo, comunque)

9. A mero titolo informativo, il mondo come noto è fatto a scale. Ti rammento che quelli che incontri salendo, son gli stessi che incontri scendendo. Non vorrei essere al posto tuo.

10. Per quanto possa sembrarti insolito, il mondo è una giungla. E anche se pensi di essere Tarzan, la ferale notizia è che c’è sempre, nel tuo ambiente, un Tarzan più giovane, più forte, più ambizioso, o, banalmente più stronzo. Per cui, ogni mattina, quando entri in ufficio, guardati intorno, il nemico, potrebbe essere alle spalle. Lo sai già? Bravo. Bella vita di merda, se mi posso permettere.

E non c’è niente da capire

La vicenda Report/Moncler è ormai talmente nota che manco val la pena farci un post.

Ma c’è stato un epilogo, che mi sento di definire interessante. Non tanto in sé, ma per dare un sentore del lezzo che emana questo paese che ormai è davvero solo più un paese per vecchi.

Quel bel figuro di Patrizio Bertelli, pensa bene di dare della ‘stupida’ a Milena Gabanelli. In concreto ‘La Gabanelli si è dimostrata stupida’ (lui, invece, un genio oltre che un gentleman).

Intravedo la cosa sul Fatto quotidiano, ier sera, mentre leggevo altro.

La notizia è stata misteriosamente bucata da Stampa, Corriere, Messaggero. La Repubblica ci offre la notizia a pagina 27. Naturalmente il fatto che Bertelli, con Prada, sia un fortissimo inserzionista pubblicitario, non ha alcuna correlazione col fatto che la notizia sia stata bucata.

E men che meno che nessuno, a parte AGI (perchè poi mi son incaponita nelle ricerche), abbia riportato la frase nella sua interezza:

Una cultura del passato oramai sorpassata, per questo la Gabanelli e’ stata stupida. E’ naturale che in un mondo globalizzato un’impresa cerchi risorse produttive con costi piu’ contenuti, per esempio in Ucraina o in Slovenia, e non si puo’ impedirlo in un mercato liberale. Questo non vuol dire che noi dobbiamo fare i carabinieri sui produttori ai quali ci affidiamo

Ecco, nell’ordine, mi permetto alcuni appunti:

1. Naturale proprio per un cazzo. Con quel che costa un fottuto piumino Moncler (o una borsa Prada) puoi comunque mantenere l’intera filiera produttiva in Italia, dando da lavorare in loco, e mantenendo comunque una marginalità elevatissima. Quindi caro Bertelli, dipendesse da me, ti sputtanerei a mezzo stampa nei giorni pari e pure in quelli dispari

2. Non si può impedirlo in un mercato liberale. Stante quanto al punto 1, è un mio personalissimo cruccio. Un paio di idee le avrei. Una per esempio che il cazzo di loghetto made in Italy valga solo se tutte le lavorazioni sono state fatte in Italy e non in Cina, Bangladesh, etc. sfruttando la manodopera e senza controllo alcuno. Sì, lo so, sono illiberale. E pure stronza. Capita

3. Questo non vuol dire che noi dobbiamo fare i carabinieri sui produttori ai quali ci affidiamo. Bertelli caro, sei proprio sicuro che da qualche parte Prada non abbia pubblicato una di quelle policy aziendali sul rispetto dell’ambiente e sulle green policy tanto care ai vostri promotori di immagine? Perchè in questo caso, a fare il carabiniere sei tenuto, tenutissimo.

Detto tutto ciò, questi, che si vendono per quattro spazi pubblicitari, non sono migliori di Prada e Moncler.

E quando domani leggerete l’ennesimo articolo strappacore sul povero disoccupato che mangia nelle mense dei poveri, o su quello che s’è dato fuoco, o sulla famiglia di quattro persone che dorme in macchina, tutti articoli scritti con tanto, tanto sentimento, pensate a quanti posti di lavoro si potrebbero creare o ricreare se il cazzo di logo Made in Italy fosse soggetto all’obbligo di effettuare tutte le lavorazioni in Italia.

Perchè qui sono tutti, ma proprio tutti, conniventi.

Partiamo, partiamo, partiamo, partite

E alla fine la montagna partorì il topolino. Vale a dire, la legge di stabilità.

Dirne male, sarebbe facilissimo. Eppure, pur senza essere la migliore delle finanziarie possibili, percorre l’unica strada ragionevole, vale a dire canalizzare le (poche) risorse disponibili sul comparto industria, nella speranza faccia ripartire l’economia ed il PIL, innescando così una serie di virtuosismi macroeconomici che potrebbero (sul medio termine, eh, non domani) produrre dei miglioramenti ad una situazione ormai largamente asfittica.

Che Renzi non mi piaccia è un dato di fatto. Ma stilare una legge di stabilità é compito gravoso, stante il rispetto dei parametri europei e la difficoltà di gestirli coi nostri, dissestati, conti.

E’ una finanziaria che dà e toglie, quindi, sostanzialmente, rialloca in un gioco a somma zero. Detto diversamente, è il gioco delle tre carte. Con una coperta che resta, comunque, corta. E quindi, o restan fuori i piedi o restan fuori le spalle.

Ecco, forse, la perplessità di fondo sta lì. Ma la scarsità di risorse non credo consentisse molto altro.

Mi pare convincente, come già dicevo, la scelta di incanalare il poco disponibile su unico progetto, nello specifico, far ripartire l’industria.

Se abbiano scelto un buon cavallo ce lo dirà il tempo. Non ripongo eccessiva fiducia sui beneficati, ma per contro, per far ripartire l’economia non è che si possa scommettere su molto altro. E comunque, meglio l’industria che le opere pubbliche, un immane buco nero ancor meno trasparente dell’impresa privata.

Per non incartarmi, che il materiale è, vediamo le misure più rilevanti,:

IRAP

Si elimina dall’IRAP la componente lavoro. Ne consegue che le imprese risparmieranno (circa) 80 Euro mensili a dipendente. Qualcosa meno sui lavoratori sotto i 40 anni.

Confindustria è contenta (e ciò preoccupa). Lo scopo più o meno dichiarato è ridurre l’accesso alle (e l’eccesso di) esternalizzazioni.

Funzionerà? Mah. Può anche darsi. Esternalizzare è spesso più conveniente sulla carta, che nella realtà.

Perchè per esternalizzare occorre saperlo fare. E se è vero che un lavoratore in Polonia, Romania o Turchia costa meno, non è questa l’unica componente che possa rendere efficace un’esternalizzazione. Quindi 80 euro potrebbero anche bastare.

Nel valutare la convenienza di un’operazione di esternalizzazione occorre considerare molte altre voci. I costi di mancata qualità, quelli di trasporto, quelli logistici.

In questi anni, in assenza di siffatte attente valutazioni, si son visti bagni di sangue di discrete proporzioni, altro che 80 euro/dipendente

Va detto però che, purtroppo, dati alla mano, la mancata qualità è più alta negli stabilimenti italiani che in quelli in Est Europa o in Turchia. E questo dovrebbe indurre a qualche riflessione. Da parte di tutti. Imprese che non investono più in formazione. E dipendenti che, nella migliore delle ipotesi, se ne catafottono.

TEMPO INDETERMINATO PIU’ CONVENIENTE

Un’assunzione a tempo indeterminato con tutele crescenti (quindi, in soldoni, senza articolo 18) sarà detassata dai contributi per tre anni.

L’hanno spacciata per una rivoluzione. Mi tengo qualche dubbio.

Non creerà ‘nuovi’ posti lavoro. Volendo eccedere in ottimismo verranno trasformati alcuni contratti ad minchiam già in vigore. Meglio che niente, per carità.

Ma nulla comunque vieta che gli assunti vengano mollati a casa dopo tre anni. O magari anche no, che alla fine l’Italia è un Paese in cui la provvisorietà, spesso, diventa norma.

In ogni caso, e nella peggiore delle ipotesi, avranno comunque lavorato per tre anni con un inquadramento decoroso. Che è comunque sempre meglio che restare a casa, o essere assoggettati a tutti quei contratti a chiamata evidentemente tarocchi. Almeno hai la mutua, e la maternità, avrebbero detto i nostri nonni.

Un appunto: con un po’ più di coraggio si cassava l’articolo 18 (cosa peraltro avvenuta nella sostanza se non nella forma) ma si faceva la stessa cosa anche con contrattini e contrattucoli, che sono, essi sì, una vergogna. Oltre che una giungla ormai incomprensibile, anche dal punto di vista normativo

TFR IN BUSTA PAGA

Prima o dopo, fa lo stesso, in fondo. Basta essere consci che se prenderai prima non avrai dopo. E il concetto che uno prenda quando gli occorrono è anche corretto. Certo, andrebbe chiarito che la possibilità esisteva anche prima. Il TFR, non dimentichiamolo, è sempre stato possibile farselo anticipare (per esempio per comprare casa).

Un appunto: sui redditi medio/alti ci si smena un botto di quattrini in tasse (e così si fa anche cassa, eh Mr. Renzi). Fare bene attenzione, nel caso, e valutate con calma pro e contro.

Molte aziende, per contro, si ritroveranno col culo per terra. Che il tfr col cazzo che l’accantonavano. Lo utilizzavano come liquidità. E saran cazzi, vedrete.

GIOCO D’AZZARDO

Tassate per un miliardo le Slot. E i gestori privi di concessione pagheranno l’imposta elusa negli ultimi tre anni. Letta, per fare un esempio dell’altro ieri, li graziò. Questa è una cosa buona, tout court. Abolirle non si può (continuerebbero ad alimentarsi ed imperversare in un circuito di illegalità ampiamente peggiore), ma massacrarle di tasse mi pare doveroso.

Spero in un rilancio al prossimo giro.

TAGLI ALLE REGIONI

Con una mano danno, con l’altra tolgono. Ma andrebbe ripensato anche il meccanismo. Perchè ci son regioni più virtuose, ed altre oggettivamente, meno. Perchè ci sono regioni che hanno trescato di più col malaffare, ed altre, meno. E forse sarebbe ora di utilizzare più severità. I buchi sanitari della Regione Lazio, o della Regione Puglia, sono da codice pesale e commissariamento, immediato. Anche se, poi, pensi ai commissari possibili e ti dici, ma tanto che cambia?.

Però, parte dei vantaggi prima citati verranno vanificati da ulteriori balzelli locali. Oppure verranno ridotti i servizi ai cittadini che dovranno pagare di tasca loro quei servizi

Però, apro qui una parentesi.

I cittadini sono, poi, così incolpevoli? L’assenza di partecipazione e controllo che da sempre pervade la classe media italiana sta dando i suoi, avvelenati, frutti.

Che qui, si è speso, e ancor si spende assolutamente a cazzo. E molti di quei soldi, inutilmente immolati, potrebbero quasi azzerare l’impatto della manovra sulle Regioni. Che di cose fatte a culo potremmo elencarne tutti migliaia e il saldo alla fine, raggiungerebbe i trasferimenti tolti.

Renzi è di antipatia ed arroganza rare, ma non erra totalmente quando dice che debbono ingegnarsi a risparmiare. Solo che dovrebbero ingegnarsi a farlo bene. Nel nostro interesse e non nel loro, o in quello degli amici degli amici.

TAGLI ALLA SANITA’

Anche qui, non è tanto il fatto che si tagli. E’ che si taglia male. Si mantengono aperte strutture dove, ragionevolmente, non ci si farebbe curare un’unghia incarnita. Ci sono presidi ospedalieri in Italia qualitativamente vergognosi. Quando sento quelle querule lamentele (eh, ma un presidio ci vuole), mi vien da dire che preferisco essere elitrasportata (o portata in ambulanza) in un presidio più lontano, ma decoroso, che in un presidio locale dove comunque: mancano i macchinari, manca la preparazione, e alla fine all’altro presidio ti ci reinviano ugualmente. Solo che stai pure un po’ peggio.

Se hai un ictus, meglio perdere mezz’ora e finire in una stroke unit, che arrivare in tre minuti in un posto dove quella mezz’ora te la faranno perdere tra TAC e cagate assortite, ma che, senza stroke unit ti assisteranno certo al meglio delle proprie possibilità ma, comunque, non adeguatamente

E già che ci siamo (almeno faccio incazzare pure i leghisti e nobilito la giornata). La Sanità andrebbe equiparata oltre che tagliata.

In Piemonte ci sono 22 stroke unit. In Lombardia 34. Da dove sto scrivendo posso raggiungerne serenamente almeno sei. In mezz’ora. E via terra.

In Lazio, pare siano solo a Roma. In Campania, tre (e nessuna a Napoli, stante la mappa del Corriere). Se ne evince che se pensi di farti partire una vena o una coronaria, pregiati di farlo mentre ti trovi in Toscana o a cavallo del Po. Altrimenti…. Be’ altrimenti, cazzi tuoi, come sempre.

Q COME CULTURA

Sui tagli alla scuola e alla cultura, occorrerebbe un capitolo a sé. Un Paese che non spende per i suoi figli è un Paese che ha perso speranza nel suo futuro. Ma la scuola italiana andrebbe ripensata, in toto, dopo lo sfacelo perpetrato negli ultimi 20 anni. Una devastazione di proporzioni tali da far sospettare un disegno. Peraltro, così essendo ci farebbero, tutti quanti, miglior figura.

Ma della scuola preferisco parlare a parte, perchè il fatto di non essere docenti o discenti, non ci solleva dal porci seriamente un problema. In franchezza l’impresa, oggi, fatica a trovare risorse.

O sono stratosferici, iperformati, competentissimi. O son delle zappe senza speranza di redenzione. Servono, come il pane, figure intermedie, di back-office, come dicono i consulenti fighi, i vecchi impiegati come diciamo noi che siam più pane e salame.

Ma su quel tipo di competenza c’è il vuoto. Pneumatico.

E’ colpa di Renzi? Sì, ma anche di Letta, Monti, Berlusconi, Prodi, D’Alema e di quanti li hanno sorretti.

Infine due sole note.

Non se ne può più di sentir parlare di Europa cattiva. Ci son delle regole. Rispettiamole. Senza chiedere continuamente sconti che, come unico risultato ottengono quello di sputtanarci ulteriormente.

Se certi sacrifici son stati chiesti a greci, spagnoli e portoghesi, perchè non dovrebbero essere chiesti all’Italia o alla Francia. E’ questione equitativa. Non di accanimento.

E in ultimo. E pure contro il mio, risibile, interesse.

Ma una cazzo di patrimoniale, no? Una cazzo di patrimoniale, con aliquote a scalare, mai?

Che le aliquote scalari son la forma più equa di pensare la tassazione.

Hai tanto? Paghi tanto. Hai poco? Paghi poco. Che io son contenta di pagar tanto. Se si stabilisce che ho tanto. Bsta che chi ha di più paghi di più. Magari mi incazzo lì per lì, ma poi me ne dimentico. E una sanità migliore, una scuola migliore, uno stato sociale più equo varrebbero lo sforzo. E lo so (dopo che mi passa il fisiologico giramento di palle).

Ma qui, siamo alla fantascienza. Perchè gli amici degli amici diranno no. E lì capisci perchè questo Paese è condannato.

 

Il capitano era di quelli del coraggio

Questo è un post che ho faticato a scrivere. Perchè è più facile sfottere, che dire, ammettiamolo pure.

E questa è un’occasione in cui di sfottere mi mancava la voglia.

Per contro, la cronaca mi offriva un esempio talmente paradigmatico di quanto ampiamente espresso in alcuni post recenti, che prima che se ne ripresentasse un altro altrettanto esemplificativo, si rischiava passassero secoli.

Negli ultimi tre giorni un’azienda sanissima, e con bilanci ampiamente in utile, quale Luxottica, si è sputtanata, sul mercato azionario, 1,82 miliardi (sì, miliardi, non mi sono rincoglionita) di euro di capitalizzazione.

Son valori virtuali, ma reali, realissimi, sono i 70 milioni di Euro che Leonardo Del Vecchio ha dovuto tirar fuori di tasca propria (cioè dalla holding in cui ha riposto i beni di famiglia) per evitare sfracelli anche peggiori. E 70 milioni di euro son tanti pure per lui, eh.

Detto ciò considerate che un investitore medio che avesse diecimila euro investiti in titoli Luxottica, ne ha persi circa mille. E fatevi un film di quanto vi girerebbero le palle.

E questa volta non ci sono poteri forti (o deboli) da accusare, o circoli Bilderberg da sospettare. Questa volta il mercato ha, con crudezza, messo in risalto il fatto che i re, in Italia, son nudi.

Leonardo Del Vecchio è una delle più grandi figure imprenditoriali del dopoguerra italiano. Insieme ad Adriano Olivetti, forse, la più grande.

Perchè ha saputo coniugare un’idea (vincente), il coraggio di realizzarla, il restare fedeli ai propri valori e l’essere una persona perbene. Qualcuno dirà, perchè non è nato col ‘culo nel burro’ (cito la Pellona). Non credo. Persone perbene, si è o non si è. Mica che tutti gli ex Martinitt sian diventati persone perbene. E Olivetti, peraltro, c’era nato affondato, nel burro, se è solo per quello.

La storia di Del Vecchio imprenditore è talmente straordinaria che non merita di essere offuscata da passaggi da libro Cuore. Perchè l’uomo, una decina di anni fa, qualche anno dopo la quotazione in Borsa, ebbe un’intuizione che lo renderà davvero unico nel panorama italiano.

Passa dietro le quinte e affida la gestione a un CEO, molto bravo, che per dieci anni conduce da par suo l’azienda. Ad agosto, il CEO si dimette.

Ora, questa gente, tra stipendi, stock options, e minchiate varie  guadagna più di ciò che tutti noi, raggruppati tireremo su in tutta una vita di lavoro. E un posto come quello non lo molli perchè una mattina ti sei svegliato con le balle girate. Un perché ci sarà. Ma è estate e siam tutti al mare (a mostrar le chiappe chiare)

Succede poi che viene nominato un altro CEO. Una figura esperta, interna. Si suppone che sia un avvicendamento scelto e gestito, e insomma, se pure Apple può fare a meno di Jobs, Luxottica potrà anche andare avanti senza Guerra. Ma se anche il secondo CEO si dimette dopo appena un mese, facendo balenare tra le righe dissidi occasionati dall’ingerenza nella gestione da parte della proprietà ma soprattutto della di lui moglie, allora i mercati, comprensibilmente, si scatenano.

La faccenda, però, evidenzia alcuni aspetti che sono il punto di debolezza più evidente del capitalismo italiano, aspetti che, puoi essere anche Del Vecchio, non si possono e non si devono (più) sottovalutare.

Primo.

Ormai molti imprenditori hanno accumulato più famiglie nel corso di una stessa vita. Nello specifico caso 6 figli da tre mogli diverse. E quando fra il tuo primogenito ed il tuo ultimogenito corrono quasi 50 anni, non è affatto facile. Ci vuole molto amore. Sentimento non obbligatorio. E piuttosto raro, soprattutto ad altissima quota.

Secondo.

Molti imprenditori hanno decretato che la loro progenie non è adatta a succedergli. Talvolta è vero. Tal altra, no. Un gran numero di imprenditori italiani è dominato dalla sindrome di Crono. I figli se li cannibalizzano. Senza giungere ai casi umani, alla Caprotti, per intenderci, che è roba da DSM-IV, è innata una certa diffidenza che alla fine convince anche il virgulto di essere un povero coglione, mentre, in molte situazioni, si tratta solo di una persona cui era necessario dare fiducia (ed evitare di fargli fare il direttore generale tre giorni dopo la laurea, magari, che insomma, è come far guidare una Maserati a un neo-patentato).

Paradossalmente, uno assai bravo, nel trasferire il potere ai figli, è stato Silvio B. E’ ragionevole pensare che ci sia lui dietro alcune quinte, ma ha saputo delegare. E anche gestire, con largo anticipo il post (vale a dire la divisione dei pani e dei pesci, quando allungherà le zampette). Penserete mica che il divorzio da Veronica sia stato così sanguinoso per quattro corna e due minorenni? No, lì si son decise le sorti dei gioielli di famiglia, e un accomodamento quale che sia devono averlo trovato (a vedere se poi reggerà).

Però il non trasferire competenze e conoscenze ad un erede diretto, è una cazzata abominevole. Pescane uno, il meno inetto, e rendilo almeno in condizioni di confrontarsi coi manager. Altrimenti, meglio vendere, e restare col pecunio. Se non sai confrontarti coi manager che assumi (e se loro non ti temono) hai la maggioranza di nulla. E ti massacreranno.

Terzo.

Quotarsi in Borsa è un passaggio a volte inevitabile. Ma non obbligatorio. Ferrero, per esempio, non l’ha fatto. Ha mantenuto la proprietà indivisa delle azioni e si è dato un erede designato. Anzi due, poi uno è sciaguratamente perito un paio d’anni fa. A vedere se, il giorno in cui il fondatore non darà più il suo apporto, l’erede designato sarà in grado di farsi carico del fardello, ma qui si rientra nella fattispecie due. Quanto, il fondatore abbia saputo delegare.

E in ogni caso, il non essere quotati in Borsa consente dei margini di adattamento che, oggi, Luxottica come Mediaset non possono permettersi.

Gli Agnelli, soprattutto Gianni Agnelli, i più cosmopoliti di tutti, (al netto di altri giudizi che sarebbero impietosi, e che meriterebbero, da soli, un post) hanno gestito i passaggi di potere con ammirevole lungimiranza.

Partendo da una situazione tra le più svantaggiate, cioè una successione priva, all’atto pratico, di successori. Che tra scomparse precoci, ed eredi che, anche se non fossero scomparsi, tali non avrebbero potuto essere, si son trovati con un vuoto colmato con abilità.

Agnelli, cui non facevano difetto né gli ottimi collaboratori, né una certa pragmaticità, pensava ad una soluzione senz’altro più soft (Umberto Agnelli, nei fatti, avrebbe dovuto reggere l’azienda per un tempo ben più lungo preparando la strada al giovane Elkann,) poi le cose, si sa, non andarono così. Ma intanto, al giovane Elkann aveva predisposto una maggioranza azionaria che ha retto agli assalti. Un capolavoro di ingegneria ereditaria, considerato l’asse successorio.

Ecco, prima di perderci dietro ai Jobs Act, ai contratti, ai tfr in busta, varrebbe la pena riflettere, seriamente, sul futuro dei grandi gruppi (da cui dipendono tutti i satelliti, cioè l’indotto), perchè da quel che si vede, si percepisce e si ode, anche qui ci confrontiamo con un mondo allo sbando, che non è mai stato proattivo, che ha smesso diessere reattivo, e che vive di mezze soluzioni che, alla fine, scontentano tutti.

Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?

Mi piacerebbe scendere sul personale e sul quotidiano. La mia vita professionale, in quesi ultimi due anni, in ragione della crisi, ma anche di altre faccende, invero, sembra sempre più una fiction scombinata scritta da un gruppo di sceneggiatori sotto acidi.

Ma non son brava come la ‘povna e la pellona (ma anche molte e molti altri del circuito blog) a nascondere quel che va nascosto lasciando inalterata la veridicità degli eventi, e raccontare mi renderebbe troppo poco trasparente. Non che io vada narrando cose che possano configurare fattispecie alcuna. Semplicemente, mi rendo conto che avere un blog è una scelta mia, e il resto del modo ha il, sacrosanto, diritto di non vedere spiattellati i cazzi propri in rete.

Detto questo, qui, vita e blog, l’ho detto più volte, si mescolano e rimescolano. E molte delle cose che racconto nascono dalle realtà con cui quotidianamente combatto (con scarsi risultati, ma vabbé)

Ultimamente il mio referente informativo è la7 col tg di Mentana. Non ho una particolare passione per Cairo, e non l’ho avuta in passato per Mentana, ma, va detto, sono i meno peggio sul proscenio, qualunque cosa questo possa voler implicare.

Ieri sera, il nostro, in gramaglie, diffonde l’ennesimo luttuoso comunicato ISTAT sulla disoccupazione.

Ora, le cose, o le fai bene, o non le fai. Capisco che è un tg e non una trasmissione di approfondimento. Però se piangi in diretta per la sciagurata situazione, deprimendo l’umore del popolo alle 8 di sera davanti alla cena, mi parrebbero doverose due spiegazioni serie.

Perchè i comunicati ISTAT non vanno diramati, vanno ‘letti’. Nel senso di interpretati.

Ecco il significato reale, quello che comunque non troverete neppure sui giornali, cui fa comodo dire che tutto va male, malissimo, anzi peggio (ed è vero) senza dare spiegazioni, che non vadano in direzione della necessità del Jobs Act, che è sì necessario, ma non in ragione del rapporto ISTAT

1. La disoccupazione cala (seppur non vistosamente) ed aumenta, vertiginosamente, quella giovanile.

Spiegazione semplicistica: non c’è lavoro e i giovani sono i primi a farne le spese, per colpa di un mercato stupidamente rigido.

Spiegazione oggettiva: c’è una marea di persone a spasso, non giovanni ma nemmeno vecchie, spesse volte in mobilità. Con dei contributi che costano un cazzo. Secondo voi un’impresa (sana di mente, e con organici all’osso, che quando assume è perchè ha bisogno di apporto subito) chi assume: un giovane, da formare ex novo, che ci metterà un paio d’anni ad essere utile alla causa, o un lavoratore con un background ampio, che, con un pao di dritte, in due mesi è equiparabile ai colleghi?

Dato di fatto: i giovani non trovano lavoro, perchè il mercato ricolloca prima i lavoratori più esperti. Non è un meccanismo malato, è un meccanismo normale.

2. I giovani fuggono all’estero.

Spiegazione semplicistica: Ohibò c’è la fuga di cervelli, perchè qui non c’è lavoro

Spiegazione oggettiva: nel 70% dei casi, sono purtroppo davvero cervelli. Gente, cioè, che pure qua avrebbe trovato lavori accettabilmente ben retribuiti, che non si creda. Il punto è che all’estero ricevono effettivamente condizioni migliori e soprattutto prospettive più certe di carriera (leggi, il non farsi scavalcare dal nipote zappa dell’imprenditore).

Dato di fatto: non è che non trovano lavoro. Non lo trovano confacente alle loro, legittime, aspirazioni. Ed è diverso. Varrebbe però la pena che anche le imprese cominciassero a guardare fuori dai patrii confini. Non è che per sostituire il cervello fuggito devi per forza assumere uno che magari non sarà un minus habens, ma che, comunque per quel lavoro c’è tagliato quanto iome per la danza classica. Il mercato del lavoro italiano è comunque ancora ampiamente appetibile per ampie fette d’Europa. E provarci, invece di piangere costantemente sul latte versato?

3. Non studiano e non lavorano. Hanno perso la speranza di trovare un lavoro.

Spiegazione semplicistica: povere creature incomprese dalla società

Spiegazione oggettiva:loro sono gli unici incolpevoli, in effetti, di un degrado che ci coinvolge tutti. E a tutti i livelli. Come genitori, perchè se non hanno motivazioni potrebbero fargliele insorgere tagliando i viveri non basici (che magari qualche lavoretto lo troviamo, prima di trovare il lavoro dei sogni…)

La scuola che è deficitaria sia nell’insegnamento delle regole che delle nozioni.

Mi scuso con le (molte) prof che transitano da queste parti. E’ ovvio che non ce l’ho con voi, conosco la vostra passione e amore per l’insegnamento e per i ragazzi. ma rendiamoci altresì conto che noi, qua fuori, non possiamo fondare le nostre speranze sul fatto che i ragazzi sottoposti a colloqui siano allievi delle ‘povne, delle pens, delle lgo, delle noisette (e non ne cito molte altre, altrettanto valide).

Sto facendo, in amicizia, un lavoretto di selezione (lavoro che svolsi professionalmente e con buoni esiti nella mia vita di prima) per un imprenditore amico, e vedo cose che voi umani…

E’ troppo pretendere che uno arrivi ad un colloquio senza:

1. essere vestito come un punkabbestia privo del cane (che temi stazioni in reception)

2. come una velina con tutto di fuori

3. chiedendo di che lavoro si tratta PRIMA di chiedere ‘quanto mi date’ e ‘quanti giorni di ferie all’anno?’

E infine mettendo insieme quattro nozioni che possono anche denotare una totale inesperienza (che mi frega, mica siamo nati tutti imparati) ma almeno una media voglia di apprendere e soprattutto una media cultura generale che non significa Shakespeare e Verga, ma almeno la conoscenza delle regole base dell’ortografia in italiano, che si vedono strafalcioni che manco alle elementari.

Perciò prima di dare notizie ferali all’ora di cena. Con le boccucce contratte a culo di gallina, spiegate.

Se è fatica date la notizia. Ma tra le tante, en passant. Senza sfrantecarcele, che noi, qua se ne avrebbero già i coglioni sufficientemente pieni.